L’Italia e il doloroso aumento della spesa militare
Non si tratta solo di voler seguire il coro europeo con il piano con nome da film d’azione, Rearm Europe (teatro di spese non vincolanti, ma che fanno tanto “impegno”): la vera spinta proviene dalla Nato, che all’Aia, nel vertice del 24-25 giugno, ha deciso che spazzerà qualsiasi velleità di risparmio. Mark Rutte, segretario generale sempre pronto a suggerire strategie allettanti, propone un’impennata fino al 5% del Pil: 3,5% per armamenti e 1,5% per infrastrutture militari a tema “smilitarizzazione della pace”. La data? Ovviamente da decidere, purché non sia troppo presto: l’Italia preme per il 2035, concedendosi una decina d’anni per trasformare l’economia in arsenale, mentre gli altri (quelli che preferiscono i tempi stretti) insistono su una finestra di sette anni. Ma perché affrettarsi? L’importante è spostare soldi ovunque faccia più rumore.
Quanto ci costerà questa festa per l’industria bellica?
Facciamo due conti, giusto per vedere il piacere che provocherà a cittadini e Tesoro. Se la spesa italiana per la difesa secondo Nato si aggira ora poco sopra il 2% del Pil, circa 45 miliardi di euro, allora per slittare al 5% entro il 2035 serve metterci sopra circa 0,3 punti percentuali all’anno. Tradotto: una decina di miliardi da sborsare in più ogni anno, senza possibilità di sosta o ripensamento, perché il mantra sembra essere “più durezza, meno dubbi”. Immaginate cosa vuol dire questo nel bilancio di uno Stato già alle prese con l’infinita gloria di tasse e tagli vari. Ma chi se ne importa! L’importante è inchinarsi all’alleanza più cara, perché quel 5% non si raggiungerà mica con un sorriso.
Ora, qualcuno si starà chiedendo quali mirabolanti spese possano rientrare in questo generoso aumento. La Nato ci ha gentilmente fornito i criteri – non si tratta solo di armamenti, anzi! Includiamo ogni cosa, dal materialissimo ponte sullo Stretto di Messina (solo 14,7 miliardi, una briciola), ai porti e aeroporti che si prestano – perché no? – a usi militari o civili. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ci tiene a sottolineare che la Sicilia, centro nevralgico del Mediterraneo e ospite di basi Nato, merita tale sforzo economico. Ovviamente, non dimentichiamo le meraviglie immateriali come la cybersicurezza e la difesa spaziale: perché se dobbiamo spendere, facciamolo su tutti i fronti, visibili e invisibili.
Come pensiamo di pagare il conto?
Ah, la fatidica domanda! Come si finanzia questo mare di spese militari senza far arrabbiare i prodi burocrati della Commissione Europea? Semplice: grazie al favoloso piano RearmEurope, arriva la «clausola di salvaguardia», che, con estrema generosità, permette agli Stati membri di sforare il patto di stabilità fino a 1,5 punti percentuali di PIL, circa 33 miliardi per la nostra amata Italia. Naturalmente, la scelta non è univoca: il ministro Giancarlo Giorgetti storce il naso, temendo che un uso di questa clausola possa ritardare la fine della procedura per deficit eccessivo. Invece il titolare della Difesa, Guido Crosetto, sembra più entusiasta, pronto a usare un altro gioiellino del piano, il cosiddetto Safe, che mette a disposizione fino a 150 miliardi in prestiti garantiti dal bilancio UE. Una vera pacchia per le casse pubbliche!
Naturalmente, come ci ricordano le simulazioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio, se la clausola venisse attivata per portare la spesa militare fino al famigerato 3% del PIL, il percorso di riduzione del debito non solo sarebbe compromesso, ma probabilmente mandato nell’oblio. Ma chi ha mai detto che la finanza pubblica debba limitare le ambizioni belliche?