Dire che il mitico «campo largo» sia morto con la sonora bocciatura dei referendum di domenica e lunedì è un’affermazione vera a metà, come un voto di fiducia che ti danno solo per educazione. La verità sta nel modo con cui ogni minima critica alla disastrosa strategia delle opposizioni viene zittita con fastidio, quasi fossimo all’asilo nido. Questo basta a dimostrare che il copione non cambierà mica: né in questo velocissimo appuntamento, le elezioni regionali autunnali, né soprattutto alle Politiche, quando diavolo saranno.
Ma facciamo chiarezza: questa continuità che assicurano non significa che il Partito Democratico di Elly Schlein, il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, la sinistra ecologista di Alleanza Verdi Sinistra e Italia Viva di Matteo Renzi abbiano davvero in mano una tattica vincente. No, niente affatto.
Guardate la questione con gli occhi della realtà: stanno semplicemente cercando di mettere insieme una specie di «cartello» tra forze politiche più eterogenee di una trasmissione di Rai 2 il sabato sera. Il loro obiettivo? Non vincere, ma sopravvivere, spartirsi i seggi — specialmente quelli uninominali — che senza questa liturgia andrebbero direttamente alla destra di governo, come successo nel 2022.
Quando Pierluigi Castagnetti, ex storico segretario del Partito Popolare Italiano, ci mette il carico dicendo che la strada imboccata da Schlein è quella che ti fa andare dritto a sbattere, non fa una supposizione, ma una certezza che tutti conoscono, solo che nessuno ha il coraggio di ammettere. Il vero dramma? Che con opposizioni incapaci di parlare e convincere anche il loro stesso elettorato, non parliamo neanche di conquistare la maggioranza, il tema non è più neanche la vittoria.
In un gioco perverso degno di un film politico dark, la vera scommessa è su una sconfitta sfumata, una disfatta simile a quella referendaria: sufficiente però per permettere a queste formazioni di minoranza senza alcuna ambizione reale di governo di accapparrarsi comunque qualche poltrona di potere utile alle loro nomenclature.
Se a questo aggiungiamo la tragedia comica della coalizione meloniana e la sua presunta incapacità di piazzare candidati decenti a livello locale, possiamo tranquillamente prevedere una possibile sconfitta nazionale bilanciata da altrettante probabili vittorie in alcune regioni chiamate al voto in autunno. Insomma, un perfetto equilibrio di tacche sull’ago della bilancia politica.
Dietro questa illusoria stabilità degli equilibri politici, che l’Istituto Carlo Cattaneo ha fotografato con la freddezza di un’analisi epidemiologica post consultazione, non c’è nulla che possa far pensare a grandi scossoni o ai salti di qualità necessari per risollevare queste forze dal pantano dell’insignificanza elettorale. Intrappolati tra velleità di potere e mancanza di consenso, i leader del centrosinistra allargato sembrano aver scelto di sopravvivere e spartirsi posticini invece di lottare per un vero rinnovamento.
Ah, l’immobilismo politico: quella sublime arte di non combinare nulla mentre tutti fanno finta di lavorare. Così si presenta la scena referendaria attuale, un’immagine da museo della rassegnazione, dove il cambiamento diventa un miraggio sempre più sfocato nel tempo. Pierluigi Bersani, quella leggenda vivente della sinistra italiana, si diverte a scrutare l’orizzonte e candidamente ammira la presenza di vari nuovi “Romani Prodi” in giro. Ovvero, aspiranti leader leggendari, pronti a far rivivere un passato glorioso che probabilmente solo lui ricorda davvero.
Nel frattempo, la componente postcomunista, sempre prodiga in gesti di rara creatività politica, si adopera per costruire una specie di “area protetta” per la frangia cattolica e atlantista del partito. Il messaggio? Non preoccupatevi, anche voi avrete il vostro ruolo nella grande recita delle opposizioni: perdenti ma con qualche gloria apparente. Naturalmente, purché non disturbiate troppo il dinamico binomio formato da Elly Schlein e dai Movimento Cinque Stelle. Del resto, le tensioni sul terzo mandato dei governatori o le turbolenze intorno alla riforma elettorale sono solo dettagli ininfluenti; variabili di un gioco già scritto, capaci di modificare qualche pedina ma mai di capovolgere l’intero scacchiere politico.