Dante Cappello e il miracolo mai sentito del sindacato territoriale inventato per caso

Dante Cappello e il miracolo mai sentito del sindacato territoriale inventato per caso

Le testimonianze, si dice, sono il cuore pulsante di ogni ricordo degno di questo nome. Ecco perché il sottotitolo del volume dedicato a Dante Cappello non lascia spazio a dubbi: l’uomo della concretezza. Solo che, dopo un’esperienza da deputato che forse definire frustrante è un eufemismo, il nostro eroe ha saggiamente deciso di rimanere dove il vero potere si misura sul campo, cioè sul territorio. Consigliere comunale ad Alife, laurea in Medicina, specializzazione in Odontoiatria e, come se non bastasse, presidente del consorzio di bonifica del Sannio-Alifano. Qualche passo avanti e si ritrova consigliere e poi presidente della provincia di Caserta, consigliere e varie volte assessore in Campania, tutto senza mai abbandonare quei ruoli apicali e di responsabilità nella gloriosa Democrazia Cristiana. Meraviglioso, vero?

Con lo sguardo rivolto a terra, schiacciato dal peso della sua proverbiale ritrosia d’animo – forse naturalmente introverso, come si conviene a chi nasce nell’entroterra pedemontano, abituato a “badare al sodo” – Dante Cappello ha sempre mantenuto un approccio pragmatico e concentrato sull’essenziale: dare risposte alle richieste della sua gente. Ah, che novità! Non amava affatto il proscenio politico, anzi, a ogni appuntamento con i giornalisti chiedeva disperatamente di non essere mai citato. «Fate come se non fossi presente» – supplicava – «a questa o a qualsiasi altra manifestazione». Schivo, poco avvezzo a formalismi, scarno nelle parole e dalla scorza ruvida (sì, anche i familiari lo confermano), incarnava l’uomo plasmato dal sacrificio, quel tipo che, per intenderci, si era miracolosamente salvato dalla catastrofe della Seconda guerra mondiale, anche se con qualche trauma ancora ben piantato nell’anima.

Insomma, niente da spartire con quel vuoto esibizionismo che i politicanti di oggi sbandierano come un trofeo. Roba da far invidia: loro, così fortunati (e noi tanto sfortunati) ad arrivare in posizioni di privilegio senza neanche un briciolo di gavetta o un minimo contatto con la realtà. E poi, vogliamo parlare di Dante Cappello, Giuseppe Santonastaso, Vincenzo Mancini, Arcangelo Lobianco e il mitico capostipite di questa generazione, Giacinto Bosco? Mondo a parte, lontano anni luce da questo teatrino moderno, dove la politica è ormai una collezione di selfie e dichiarazioni di facciata.

Un tempo si vinceva andando porta a porta a cercare preferenze, non chiudendosi in comode stanze collegate a Instagram. I cittadini si presentavano alle urne in massa, non lasciando i seggi desolatamente vuoti per due giorni (un record che oggi si fatica a battere). Bisognava curare il collegio elettorale, dimostrare costante impegno, garantire una presenza tangibile sui problemi reali del territorio. Certo, c’era anche il lato sporco della medaglia: clientelismo, raccomandazioni e qualche mazzetta per finanziare la politica. Ma chi potrebbe dimenticare che, in questo strano paese, i problemi si gonfiano finché esplodono come bolle di sapone?

Ed ecco Tangentopoli, fulmine a ciel sereno che travolge tutto senza fare distinzioni, distruggendo qualsiasi forma di identità, anche quelle potenzialmente salvabili: i partiti, le occasioni formative, le esperienze culturali, la militanza, le battaglie civili, le iniziative sociali e persino i congressi, celebrati nei palasport con risse di mozioni. Forse non è tutta colpa di Mani Pulite, diciamocelo: la ruggine aveva ormai divorato meccanismi e ingranaggi, e quel sistema era destinato a crollare. Ma avrà un perché se la nostalgia della cosiddetta prima Repubblica torna ossessivamente a far capolino, quasi a ricordarci l’arido deserto in cui oggi siamo confinati, privati di qualsiasi speranza di riscatto sociale, culturale, civile e politico.

La fine ingloriosa dei partiti tradizionali avrebbe dovuto spalancare le porte a nuovi soggetti politici: più leggeri, meno corrotti, più flessibili e, ovviamente, senza nemmeno l’ombra di un finanziatore da dover ringraziare. E invece? Risultato? Un deserto di responsabilità. Noi, cittadini abbandonati a lamentarci senza sapere con chi prendersela. Perché, indovinate un po’? A un Parlamento eletto, sceglievamo un comodo gruppo di nominati. Il progresso, in tutta la sua irresistibile gloria.

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