Gaza, l’ennesima trovata di Netanyahu per gestire gli aiuti: dalla fondazione svizzera ai contractor americani, un colpo di genio o solo follia?

Gaza, l’ennesima trovata di Netanyahu per gestire gli aiuti: dalla fondazione svizzera ai contractor americani, un colpo di genio o solo follia?

Il premier israeliano continua imperterrito sulla sua linea intransigente, decidendo di escludere le Nazioni Unite dalla questione. Perché, ovviamente, chi ha bisogno dell’Onu quando hai un’affidabile fondazione che non ha nemmeno un sito web? Ah, l’ironia della modernità!

Cercando su Google, l’unico risultato che si ottiene per la Gaza Humanitarian Foundation è un documento PDF dal titolo promettente: «Aiuti sicuri e trasparenti per Gaza». Chi potrebbe mai dubitare di una fondazione che si presenta con quattordici pagine di intenti, missione e nomi di fondatori, alcuni dei quali, manco a farlo apposta, sono ancora da definire? Sì, proprio quello che ci vuole per un aiuto umanitario, gente che non ha mai messo piede in questo mondo e che viene formalmente registrata in Svizzera solo quest’anno. Ma chi può biasimarli, giusto?

Con il beneplacito dell’ex presidente Donald Trump, Benjamin Netanyahu ha deciso che l’Onu, e in particolare l’Unrwa, non devono avere voce in capitolo quando si tratta di gestire gli aiuti per quella Striscia di Gaza, arresa a un assedio che dura da undici settimane. E perché? Perché affidare aiuti a chi effettivamente sa come farli arrivare dove servono, quando si può sperimentare questa nuova avventura con i fondi di una fondazione misteriosa, giusto?

Dal fine maggio, quindi, il compito di mandare aiuti nella miseria viene assegnato alla Ghf, con l’incredibile scusa di evitare che queste risorse finiscano nelle mani di Hamas. Perfetto! Naturalmente, il piano è stato definito da molti come «nebuloso»: ognuno ama un mistero, soprattutto quando si tratta di cibo. I centri di distribuzione? Concentrati nel sud di Gaza, controllati da contractor militari statunitensi — proprio il modo migliore per garantire l’efficienza degli aiuti. Davvero un colpo da maestro di logistica!

Immaginate solo: centinaia di migliaia di palestinesi, costretti a peregrinare per chilometri e chilometri per un pacco alimento. Certo, chi ha mai pensato che una semplice donna, magari vedova a causa di un bombardamento, potesse avere bisogno di un po’ di sostegno per trasportare 110 chili di farina e 20 litri di acqua? Ma non preoccupatevi, la disperazione è una forza trainante, no?

Le parole più incisive in merito provengono da Tom Fletcher, responsabile umanitario delle Nazioni Unite, il quale non ha avuto remore a sottolineare come Netanyahu stia politicizzando gli aiuti. Ha anche fatto notare che l’attuale piano di assistenza sembra più un tentativo di spostare forzatamente la popolazione che una reale strategia di salvezza. Diciamolo chiaramente: Fletcher ha chiesto di affrontare il sistema in atto, e ha affermato:

Fletcher ha detto:

“Netanyahu condiziona gli aiuti a obiettivi politici e militari. Trasforma la fame in merce di scambio. Questa è una foglia di fico per ulteriori violenze e sfollamenti.”

Ecco qui: la fame come merce, davvero un’idea innovativa! E noi pensavamo che gli aiuti dovessero essere una questione di responsabilità umanitaria. Sembra che ci si stia avvicinando a una forma d’arte moderna, dove la miseria diventa un’opzione di mercato. Strano, che i bisogni fondamentali delle persone vengano gestiti come fossero nelle mani di un gioco da tavolo.

Secondo il Financial Times, Ghf ha in mente di servire la bellezza di 300 milioni di pasti in un lasso di 90 giorni. E indovinate un po’? Il costo stimato per ciascun pasto è di 1,30 dollari, una somma che include anche quella del servizio di sicurezza armata per i convogli. Ma la vera domanda è: da dove arrivano i fondi? Tre fonti indipendenti annunciano che nessun donatore straniero ha aperto il portafoglio. Si vocifera di un’entità misteriosa, uno Stato senza nome, pronto a donare 100 milioni di dollari. Ma chi ha avuto la brillante idea di questo progetto? David Beasley, ex direttore del Programma Alimentare Mondiale, e Nate Mook, già direttore di World Central Kitchen, hanno dichiarato di non avere nulla a che fare con questa iniziativa. Anche il Tony Blair Institute smentisce ogni associazione formale con l’ex primo ministro britannico, che sembra ridursi a dare qualche consiglio a distanza. La chiara leadership di Ghf è affidata a Jake Wood, un ex marine e fondatore di Team Rubicon.

Dopo le innumerevoli critiche ricevute, la fondazione tenta di rimediare chiedendo al governo israeliano di poter aprire centri di distribuzione nella parte nord di Gaza. E non dimenticate la promessa di tutelare la privacy «dei beneficiari». Ma non è ancora chiaro quale sia stata la risposta di Netanyahu. Chi può dirlo? Sicuramente non noi!

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