Ravasi: la Chiesa in crisi mentre il Papa cerca l’unità perduta fra frange disperate

Ravasi: la Chiesa in crisi mentre il Papa cerca l’unità perduta fra frange disperate

Il cardinale biblista mette in guardia: «La sfida? Salvare la pluralità senza trasformarla in divisione». E va bene, perché noi sappiamo tutti quanto sia difficile camminare insieme, specialmente quando ci si ritrova a fare i conti con i tanti «io» della Chiesa. Poco importa che a Francesco non interessi troppo la trascendenza: la sua parola ha raggiunto le strade, le periferie, cercando disperatamente di trovare un po’ di affetto in un mondo sempre più indifferente.

«Si era accorto che la Chiesa si sta sfrangiando! Quale rivelazione! Grazie alla sinodalità, questo nuovo mantra che implica semplicemente che dobbiamo camminare tutti insieme, magari tenendoci per mano. Ma chi lo avrebbe mai detto!», dice il cardinale Gianfranco Ravasi, freschissimo reduce dagli ultimi dibattiti a Roma. «Per ora, siamo qui noi, in attesa degli altri, che chissà quando e se mai arriveranno», aggiunge, come se parlare di unità non fosse già di per sé un bello scherzo per un’istituzione così, ehm, variegata.

Ma in che cosa consiste questa frantumazione, cari lettori? «Ah, la pluralità è una ricchezza!», esordisce Ravasi, che sembra quasi entusiasta della confusione che regna nel Vaticano. Non dimentichiamo che la Chiesa primitiva era un “bello pasticcio”, un ensemble di opinioni e divisioni, con figure eminenti come Pietro e Paolo che già avevano capito come fosse faticoso camminare insieme. E, a proposito di questa follia, ha aggiunto: “Dobbiamo camminare insieme con piedi che procedono a velocità differenti”. Ecco, proprio come un gruppo di turisti in visita a un museo: ognuno con i propri ritmi, i propri interessi e probabilmente anche il proprio tour operator.

Sembrerebbe che il prossimo Papa avrà un compito arduo, tipo tentare di mantenere equilibrio su un filo di rasoio. «Francesco aveva avvertito il pericolo!», e ce ne mancherebbe! Ma in fondo, a chi importa davvero?

Ciò che conta, dice Ravasi, è la questione dell’incarnazione, citando il famoso versetto di Giovanni che recita: “E il Verbo divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi”. Altro che trascendenza! Francesco è sceso tra le persone comuni, nelle periferie, cercando compagnia in un mondo che lo accoglie a braccia aperte, o quasi.

«E come lo ha fatto?», qualcuno potrebbe chiedere. «Oh, lo hanno accusato di non avere una solida formazione teologica! Ma davvero? Un grande impianto sistematico come quello di Ratzinger? Non era nella lista delle priorità di Francesco! Anzi, nel suo magistero si percepisce spesso il Vangelo, come se fosse un inaspettato ingrediente segreto. Croce e delizia del suo insegnamento! Nessuno può dire che tutti non siano stati affascinati dalla famosa parabola del Buon Samaritano, vero? E per fortuna che le parole sugli ultimi sono di Cristo, altrimenti chissà dove saremmo finiti!», conclude Ravasi, con un certo compiacimento.

La semplicità del linguaggio era una scelta? Ovviamente! Ci mancherebbe altro che ci fosse un uomo colto, amante della poesia e della musica, che si esprime in modo complicato. Eppure, è interessante notare cosa disse ai giovani durante il suo viaggio in Lettonia, a Riga, nel 2018: “Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna di qualunque provenienza”. Una mossa da maestro, non c’è che dire.

In questo contesto, parliamo di incarnazione? Certo, ma non basta fermarsi lì. Ha saputo elaborare un linguaggio originale; lo ricordo perfettamente, ne ho parlato con studiosi dell’Accademia della Crusca. Parole simboliche come l’odore delle pecore, la guerra mondiale a pezzi, la Chiesa come ospedale da campo sono ormai entrate nella memoria collettiva. In un’epoca digitale come la nostra, evidentemente, la comunicazione deve avere questa dimensione essenziale. Che colpo di genio, eh?

Certo, il suo approccio è stato radicalmente diverso da quello del suo predecessore… Benedetto XVI si era concentrato sull’ascendenza trascendente e sulle questioni escatologiche. Entrambe le dimensioni sono necessarie, certo. Da un lato ci sono le questioni ultime, l’escatologia, in un mondo dove prevale quella che chiamo “apateismo”, ovvero l’indifferenza nei confronti di Dio. E chi non ricorda Paul Ricoeur, che diceva: “Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini”? Dall’altro lato, abbiamo bisogno della parola che scende tra la gente. Come in musica, il contrappunto è armonia, non è dialettica, giusto? La base comune è il Vangelo, la fede evangelica. Uno la elaborava in modo sistematico, l’altro la presentava in una forma più narrativa. Non possiamo seguire solo i sentieri di montagna, ci sono anche le valli da esplorare. E chissà, il pontefice che verrà potrebbe tentare di mantenere un equilibrio tra queste due dimensioni.

Non è affatto facile… No, in effetti. Del resto, il Papa che verrà si troverà di fronte a una situazione piuttosto inedita. E di cosa stiamo parlando?

Perché l’universo si ribella in questa maniera? Perché Francesco, fino a non molto tempo fa, ha dovuto confrontarsi con un mondo in continuo movimento, una cultura contemporanea priva di punti di riferimento stabili, in balia del relativismo tanto rimarcato da Benedetto XVI. Negli ultimi due o tre anni, però, sembra che ci sia stata un’involuzione. Il soggettivismo ha fatto le valigie e ora dominano visioni contrastanti: sovranismo, nazionalismo, imperialismo, e sì, la brutale determinazione con cui si vorrebbero risolvere i problemi del mondo. È un mondo che, in certi aspetti, sta tornando indietro, al modello peggiore del secolo scorso. Ah, il progresso!

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