Alemanno, il diario dal carcere: così resisto in una cella fatiscente perché chi si lascia andare diventa un morto vivente

Alemanno, il diario dal carcere: così resisto in una cella fatiscente perché chi si lascia andare diventa un morto vivente

Immaginate di passare la vostra vita in un luogo dove le brande a castello sono il vostro letto, e il rumore di un carcere come Rebibbia è la colonna sonora delle vostre giornate. Questo è il nuovo “ufficio” dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che racconta i suoi “intensi” primi 90 giorni di detenzione con una sfumatura di bizzarra esuberanza. “La reclusione è un’intensa esperienza comunitaria,” afferma, mentre si adatta a una vita di limitazioni dove persino la libertà di movimento sembra un lusso non concesso.

Una vita “intensa” in comunità

Alemanno sostiene che, sebbene molti detenuti cerchino solo modi per “passare la giornata,” ci sono anche quelli disposti a impegnarsi per un futuro migliore. Eppure, ci chiediamo, è davvero un futuro migliore quello che ci promette un sistema giudiziario che continua a rimandare l’azione? La partecipazione è lodevole, certo, ma cosa succede a chi, per le circostanze, diventa “un morto vivente”? La sua riflessione su non sprecare quest’esperienza suscita una domanda: chi avrà davvero qualcosa da guadagnare da una condanna, tranne che per il “carcerato” che continua a fare politica da dietro le sbarre?

Politica dall’interno: il paradosso del sovranismo

Anche da dietro le sbarre, Alemanno non smette di fare politica attraverso il movimento sovranista “rossobruno”. Nella sua ultima impresa, ha espresso “massima solidarietà a Marine Le Pen“, gettando un faro sulla sua personale “battaglia sovranista” che, evidentemente, non conosce né limiti geografici né istituzionali, nemmeno in carcere. Ma quali sono le reali motivazioni dietro a queste affermazioni? Un’auto-promozione che trascende le circostanze legali o è un tentativo disperato di mantenere viva la sua immagine pubblica?

L’ironia della giustizia

La sua storia personale, che si intreccia con la storia del processo Mondo di mezzo, fa sollevare molte questioni. Arrestato per violazione degli obblighi di sorveglianza, si è trovato accusato di traffico di influenze illecite, mentre i giudici gli concedevano un affidamento presso la comunità di un’amica. Un sistema in cui l’amicizia e le connessioni sembrano affiancare la giustizia, quasi come una riedizione dell’antico adagio “a chi conosci, non a cosa hai fatto”.

Conclusione: possibili soluzioni o illusioni?

Ora, mentre l’ex sindaco si appresta a trascorrere un altro anno in questa “intensa esperienza comunitaria”, qual è la soluzione a questa apparente schizofrenia sociale? Potremmo scrivere un trattato sui diritti dei detenuti o magari aprire un dibattito su come far sì che la pena non sia solo una punizione, ma una reale opportunità di riabilitazione. Ma la verità è che finché il “sistema” continuerà a funzionare in questo modo ambiguo, le promesse di cambiamento rimarranno vuote, come molte delle affermazioni fatte da chi vive nelle istituzioni.

Una volta libero, ha dovuto fare i conti con la prospettiva di dover scontare almeno un altro anno a Rebibbia. La sua testimonianza svela le tante contraddizioni della vita carceraria: «Tra i compagni di cella si condivide tutto, dai cibi ai lavori quotidiani, dalle emozioni ai ricordi» racconta. Ma chi pensava che le esperienze pregresse potessero far prevalere un certo senso di comunità dovrà ricredersi: nei corridoi, il potere non si misura in titoli di studio, ma in durata della detenzione. I più anziani, con anni di carcere alle spalle, gestiscono le regole comuni, per quanto queste siano autogestite e, paradossalmente, ferree, soprattutto quando si tratta di pulire e cucinare.

La quotidianità in queste celle è ben lontana dall’essere idilliaca: «C’è un continuo lavoro artigianale di ogni detenuto per migliorare le condizioni di vita», scrive sui social. Una fatica che si svolge tra celle “fatiscenti”, un bagno in comune, e un lavandino senza acqua calda. Non sorprende che l’ex sindaco di Roma si trovi nel braccio meno malmesso, il G8, risalente agli anni Sessanta, quasi un paradiso in confronto al resto del carcere. Ma la vera chicca è la suddivisione dei compiti in cucina: «In ogni cella c’è almeno un detenuto che, in base ad esperienze pregresse, si improvvisa cuoco, utilizzando fornelli a gas e ingredienti “riciclati”». Una ristrutturazione culinaria che lascerebbe senza parole i food blogger.

E non si può non notare la meravigliosa ironia nel fatto che i detenuti del Sud sembrino avere una marcia in più: «I risultati, soprattutto nelle celle di origine calabrese, sono al di sopra della media delle nostre case, dove impazzano le cattive abitudini di cibo d’asporto». Quindi, mentre un’intera nazione fatica a trovare una giusta alimentazione, in carcere si riscoprono tradizioni culinarie e innovazioni improvvisate, il tutto condito da una buona dose di necessità.

Un sistema che non funziona

Alla fine della fiera, le contraddizioni sono evidenti: da un lato, la solidarietà che si crea tra i detenuti, dall’altro, le condizioni di vita che sembrano relegarli a una lotta per la sopravvivenza quotidiana. Ma quale vera politica di riforma si sta attuando? O è tutto fumo negli occhi, come spesso accade in queste situazioni? Le promesse di miglioramento infrante rimangono solo delle illusioni, mentre l’amministrazione continua a operare in un clima di vaghezza istituzionale.

Possibili soluzioni

Forse, se solo si investisse in strutture più dignitose e programmi di reintegrazione veri, non saremmo costretti a scoprire chef improvvisati tra le sbarre. Ma perché farlo quando è così comodo affermare che il carcere è una scuola di vita? Si potrebbe obiettare che le condizioni anti-igieniche sono parte del “processo educativo”. Riuscire a prendere in giro le speranze altrui è un’arte che non si apprende in carcere, ma fuori, in un mondo che di promesse mai mantenute sembra saperne più di quanto si possa immaginare.

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