Pedagogisti e assistenti sociali in partita Iva: senza stipendio da 4 mesi, trattati come lavoratori di serie B

Pedagogisti e assistenti sociali in partita Iva: senza stipendio da 4 mesi, trattati come lavoratori di serie B

Due realtà apparentemente distanti, ma in realtà più vicine di quanto si pensi: lo Stato, in quanto garante della stabilità lavorativa, e i professionisti che operano per il Ministero della Giustizia, ora abbandonati a se stessi. Questo è il paradosso in cui sono piombati sei specialisti in servizio sociale per i minorenni in Friuli, Veneto e Trentino, che si sono ritrovati a lavorare instancabilmente senza ricevere un euro da novembre, gettando così una luce cruda sulle modalità oramai obsolete di affrontare il tema della precarietà nel settore pubblico.

I professionisti dimenticati

«In un primo momento ci hanno comunicato che non c’erano fondi», racconta una pedagogista, la cui esperienza professionale è fondamentale in un contesto così delicato come quello della rieducazione di minori autori di illeciti. La questione non è solo la mancanza di stipendio, ma l’incertezza nell’attesa di riscontri, poiché le richieste di chiarimenti si scontrano sempre con risposte evanescenti e poco rassicuranti. “Siamo preoccupati”, dichiara la pedagogista, sottolineando come il supporto fornito dai professionisti sia equiparabile, in termini di importanza, a quello di un funzionario pubblico — eppure il trattamento economico sembra appartenere a una categoria di “serie B”.

Il paradosso della sicurezza

Se lo Stato si presenta come l’ancora di salvezza in un mercato del lavoro instabile, risulta contraddittorio che esso stesso ricorra a forme di remunerazione precarizzanti. È come se l’ente che dovrebbe garantire stabilità abbandonasse le proprie stesse promesse. Così, i professionisti passano dalla dedizione al disincanto, dal servire l’interesse pubblico a fare i conti con l’assenza di fondi — una gestualità che parla di un inefficienza burocratica palpabile.

Chi paga il prezzo?

Questo non è solo un problema di buste paga, ma di vite reali. Ogni giorno, i sei professionisti si confrontano con ragazzini con storie difficili, disegnando un futuro per loro mentre il proprio si fa sempre più incerto. Per esempio, un’assistente sociale racconta di aver dovuto chiedere aiuto a familiari e amici per coprire le spese quotidiane, evidenziando quanto possa essere distante la teoria dalla pratica nel campo del lavoro sociale. Che messaggio riceve un giovane quando il sistema che dovrebbe proteggerlo dimentica chi ha il compito di aiutarlo?

Possibili soluzioni — con un pizzico di scetticismo

Sarebbe auspicabile che le istituzioni iniziassero a considerare alternative più sostenibili, come contratti stabili e una gestione più oculata delle risorse. Una proposta semplice, ma che non sembra trovare eco in un contesto burocratico troppo spesso bloccato da dinamiche impercettibili, quasi occultate. Del resto, si potrebbe anche ipotizzare di ripensare il sistema di pagamento, non fossilizzandosi sulle tempistiche di un “arrivo” promesso che, evidentemente, non arriva mai. Ma si sa, le buone intenzioni spesso rischiano di rimanere solo sulla carta, mentre le persone continuano a fare i conti con la realtà quotidiana di un lavoro precario.

Un fattore che colpisce come una pugnalata allo stomaco è il fatto che, nonostante il lavoro incessante, gli stipendi di sei professionisti nel settore educativo siano in attesa da oltre quattro mesi. Mentre le spese si accumulano e le famiglie si trovano in situazioni difficili, il problema sembra confinato al Triveneto. Ma perché? La risposta, o meglio, l’assenza di essa, fa riflettere.

Un mistero ingiustificato

Una pedagogista racconta che, a differenza di altri colleghi in diverse regioni, i suoi pagamenti sono ancora un miraggio. Ha un contratto di collaborazione e si occupa degli interventi formativi con i ragazzi e le famiglie, ma di un pagamento nemmeno l’ombra. «Io ho compilato una fattura e non so in che anno mi pagheranno», dice, con un misto di ironia e frustrazione. È evidente che la sua responsabilità si estende ben oltre le 70 o 120 ore settimanali per cui è stipendiata. L’ufficio che si occupa dei pagamenti si trova a Venezia, ma sembra che la corrispondenza con queste istituzioni serva a ben poco, a dispetto della sua importanza.

La politica sotto accusa

Il commento di Andrea de Bertolini, capogruppo regionale del PD, non tarderà ad arrivare. “È sconfortante che le stesse istituzioni abbiano generato questo cortocircuito,” afferma, spostando l’attenzione sulla responsabilità politica. La precarietà dei contratti non è un caso isolato: è una realtà che sembra colpire chi, con dedizione, lavora nel settore della giustizia minorile. E il paradosso è lampante: mentre lo Stato dovrebbe fungere da garante della stabilità lavorativa, è proprio esso a perpetuare la precarietà.

Vittime di un sistema malato

Nonostante queste delusioni, i professionisti continuano a credere nel loro lavoro, sebbene il rischio sia quello di sempre più assistenti sociali, pedagogisti e psicologi che abbandonano posti di lavoro fondamentali. “Ci sentiamo amareggiate ma crediamo in questo lavoro”, commentano. Qui sta l’incongruenza: come si può avere fiducia in un sistema che non retribuisce il lavoro con cui si costruisce il futuro di molti giovani?

Soluzioni o illusioni?

La questione diventa allora: quali soluzioni sono in campo? La strada legale viene vagliata, ma chi ha davvero voglia di intraprendere una battaglia che dovrebbe essere superflua? Se solo le istituzioni applicassero la logica della meritocrazia anche ai pagamenti, si potrebbe parlare di un reale impegno verso chi sostiene il tessuto sociale. Altrimenti, l’unica garanzia è che con ogni mese di ritardo si allontana la fiducia e, paradossalmente, anche la qualità dei servizi essenziali. Se il sistema non si riorganizza rapidamente, il rischio è di tornare a quel “io non ci lavoro più” che non è solo il grido di un professionista, ma un allerta sociale per tutti.

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