UniCredit decide di gonfiare il capitale per sostenere una bella scampagnata finanziaria: l’offerta pubblica totalitariasu Banco BPM. Perché? Per diventare “più forti”, ovviamente. Peccato che a forza di crescere, a pagarne il conto sono sempre gli stessi: i cittadini, i correntisti, i dipendenti, e in fondo, anche un po’ il buon senso.
L’OPA dei sogni: UniCredit si compra Banco BPM con i soldi di tutti
UniCredit ha approvato all’unanimità un aumento di capitale. E già qui ci sarebbe da ridere. Nessuna voce fuori dal coro, nessun dubbio, solo applausi e pacche sulle spalle. Una decisione “scindibile”, cioè a rate, con “esclusione del diritto di opzione”. Tradotto: il mercato può anche fottersi, decidiamo noi chi partecipa al banchetto.
L’obiettivo? Rilevare tutte le azioni di Banco BPM, mica solo un pezzetto. È l’ennesimo colpo di reni del capitalismo bancario italiano, dove si gioca a fare gli imperatori con le pezze al culo.
“Espansione” o sindrome da onnipotenza finanziaria?
Secondo UniCredit, questa operazione serve per “rafforzare la propria posizione competitiva”. Certo, perché mangiare concorrenti è ormai l’unico modo per sopravvivere in un sistema che non premia l’efficienza, ma la dimensione pachidermica. Un colosso che cresce mentre tutto intorno si sbriciola.
Il mantra? “Crescita sostenibile”. Ma di sostenibile qui non c’è proprio nulla. C’è solo un’altra dose di finanza creativa, un altro giro di valzer tra consigli di amministrazione iperpagati e analisti complici, che chiamano “valore” quello che è solo accumulo di potere.
Le sinergie? Un bel modo per dire “tagli al personale”
Ah, le famigerate sinergie industriali. Traduzione spietata: esuberi, fusione dei reparti, riorganizzazioni “strategiche” che di solito finiscono col mettere in mezzo alla strada centinaia di lavoratori. Tanto, si sa, i veri stakeholder oggi sono gli azionisti, mica i dipendenti.
E mentre UniCredit celebra l’operazione come un passo verso l’integrazione europea, le filiali chiudono, i territori si svuotano e i clienti parlano con chatbot che sbagliano anche il nome.
Il capitale umano? Buona fortuna
Nel comunicato si parla di “valorizzazione del capitale umano”. Cioè? Che finalmente i dipendenti saranno pagati il giusto? Che non verranno più spremuti come limoni? Macché. È il solito specchietto per le allodole. L’unico capitale che conta, qui, è quello azionario. Il resto è contorno.
Racconti di chi la fusione la subisce, non la decide
C’è Maria, impiegata da vent’anni in Banco BPM. Dopo la fusione col precedente istituto, le avevano promesso “formazione e crescita professionale”. Oggi si ritrova con tre mansioni al posto di una, e un capo nuovo ogni sei mesi.
O Marco, piccolo imprenditore di provincia. Prima aveva un referente bancario che lo conosceva da anni. Ora deve prenotare una consulenza online per chiedere un fido da 5.000 euro. E pregare che non cambi tutto di nuovo tra sei mesi.
L’integrazione? Una parola che copre solo disastri
Non fatevi ingannare: il “processo di integrazione” è una parola elegante per dire caos organizzativo, sistemi informatici in tilt, dipendenti spaesati e clienti infuriati. Il tutto mentre i manager si congratulano tra loro per le “visioni strategiche”.
Le soluzioni “geniali” dei grandi banchieri
UniCredit ha un piano. Anzi, una missione. Quella di diventare un “attore integrato” nel sistema bancario europeo. Che peccato che nel frattempo le banche chiudano, i servizi peggiorino, e il cliente venga trattato come un fastidio.
Ma tranquilli, il comunicato rassicura: “valorizzeremo le sinergie”. Già lo sentiamo il rumore delle forbici sui contratti.