Obiettivo dichiarato? Esplorare a 360 gradi (ma proprio tutti gli angoli, sappiatelo) gli scenari emergenti per il capitale umano, quelli offerti da un’Intelligenza Artificiale che ormai spunta ovunque, più insistente di una pubblicità dopo mezzanotte. Attenzione, non è solo una faccenda da nerd o ingegneri: qui si parla di “capital umano”, come se fosse un qualche tipo di metallo prezioso, con università, imprese e istituzioni in prima linea, tutti stretti in una sorta di abbraccio/copertina di Linus per capire come questa AI cambierà il lavoro.
Naturalmente, l’obiettivo è più che nobile: affrontare la sfida della trasformazione digitale del mercato del lavoro, anche se ormai sembra più una lotta per vedere chi riesce a vendere la migliore versione del futuro possibile. Il tutto in un clima di entusiasmo quasi religioso verso le potenzialità dell’Intelligenza Artificiale, nonostante nessuno sappia realmente dove andremo a finire.
I grandi protagonisti della giornata: imprese, università e istituzioni
Come non citare la schiera infinita di stakeholder: qui abbiamo di tutto, dal mondo accademico con il suo lessico ermetico e le sue previsioni futuristiche, alle imprese, pronte a saltare sul carro del progresso tecnologico per vendere roba nuova e magari farsi pubblicità, fino alle istituzioni, che partecipano per dare un tocco “istituzionale” all’evento. In pratica un cocktail esplosivo di buoni propositi e autocelebrazioni.
Senza dimenticare i manager che si alternano sul palco per declamare quanto sia urgente formare una “forza lavoro AI-ready”, come se bastasse un corso accelerato di 5 ore per trasformare uno stagista in un mago dei dati. L’illusionismo formativo sembra la nuova frontiera. Nel frattempo, il capitalismo globale continua imperterrito a spremere risorse umane con la promessa che, grazie all’AI, lavoreremo meno e guadagneremo di più. Ironia delle ironie.
Capitale umano, futuro del lavoro e una dose letale di ottimismo
Il cuore della discussione, per chi ama le ovvietà ripetute all’infinito, è il ruolo cruciale del “capitale umano” — termine tanto elegante quanto fumoso per dire persone, lavoratori insomma — e la necessità spasmodica di formarle per farle stare al passo con l’intelligenza artificiale. Ma attenzione, quella buona, eh. Non quella che ci fa sostituire dai robot o che ci rende obsoleti in una notte.
In pratica, il messaggio subliminale è: lavoratori, imparate nuove skill, diventate “AI-friendly”, perché il futuro del lavoro non aspetta. E no, non serve alzarvi dalla sedia o contare su una politica che vi protegga; ricordate che siete il capitale. Punto. La retorica dell’autonomazione e del lifelong learning è più solida di qualsiasi contratto di lavoro.
Non manca neppure la sana differenziazione tra tecnologie amiche e minacce da fronteggiare, tutto rigorosamente con un sorriso entusiasta, pronto a svelarci che la tecnologia non ci schiaccerà, ma anzi ci libererà. Meno male, eh. È quasi commovente quanto si sforzino di ammantare di positività il futuro, anche quando è evidente che molti verranno lasciati indietro o risucchiati da algoritmi senza scrupoli.
Chi ha veramente da guadagnarci in questa storia?
Dietro la maschera di convegni e tavole rotonde si nasconde un’ovvietà scomoda: chi detta legge in questo passaggio epocale sono soprattutto coloro che possono investire, innovare, e soprattutto monetizzare. Le imprese tecnologiche, che ormai sono diventate più ricche e potenti di molti stati, hanno tutto l’interesse a diffondere un’idea di formazione continua e adattabilità infinita.
Nel frattempo, il lavoratore modello diventa un tipo ibrido: multitasking, pronto a resettarsi ogni due anni, e soprattutto disposto a non lamentarsi mai, perché “il futuro è adesso” e si deve essere grati di farne parte. Che bellezza.



