Che sorpresa! Stellantis, quel gigante dell’automotive che distribuisce Jeep, Dodge, Fiat, Chrysler e Peugeot come fossero caramelle, ci regala l’ennesima puntata del dramma societario. Dopo aver rassicurato tutti sul rispetto delle stime finanziarie per la seconda metà dell’anno, ecco spuntare un magnifico avviso: preparatevi a costi una tantum che, ovviamente, saranno esclusi dall’utile operativo. Perché perché no, giusto per tenere un po’ di suspense.
Le azioni di Stellantis, quotate a Milano, hanno prontamente risposto con un balzo verso il basso del 6%, per poi frenare leggermente intorno al 5% di perdita, giusto per non esagerare. Chi si aspettava un rally festeggiando il ritorno all’utile, si è dovuto ricredere: siamo infatti a un secco -25% dall’inizio dell’anno. Ma tranquilli, il peggio deve ancora venire, o forse no.
L’annuncio di questi temibili “costi una tantum” arriva proprio al termine di un terzo trimestre che sembrava – almeno in teoria – promettente. Il fatturato netto di luglio-settembre ha mostrato addirittura un aumento del 13% rispetto all’anno precedente, raggiungendo i 37,2 miliardi di euro. Un dato che ha fatto sobbalzare gli analisti, che si aspettavano un più modesto 36,58 miliardi, ma a quanto pare non c’è molto da festeggiare.
Antonio Filosa, il CEO di Stellantis, ha dichiarato:
“Mentre continuiamo a implementare importanti cambiamenti strategici per offrire ai nostri clienti maggiore libertà di scelta, abbiamo registrato un progresso positivo sequenziale e una solida performance anno su anno nel Q3, segnata dal ritorno alla crescita del fatturato.”
Non pago del politically correct, ha aggiunto:
“Stiamo anche adottando azioni decisive per riallineare le risorse, i programmi e i piani di Stellantis a sostegno di una crescita redditizia a lungo termine, incluso il nostro recente investimento da 13 miliardi di dollari negli USA.”
Ah, l’America, la terra delle opportunità… per gli investimenti che si traducono in potenti movimenti mediatici. Prima di marzo di quest’anno, Stellantis ha svelato uno dei suoi colpi grossi: 13 miliardi di dollari da spendere negli Stati Uniti, il più grande investimento nella storia centenaria dell’azienda. Ovviamente, questo serve a lanciare cinque nuovi modelli e creare ben oltre 5.000 posti di lavoro, un dettaglio che sembra fatto apposta per mettersi in buona luce tra i sussulti del mercato – e magari anche davanti a qualche politico di turno.
Proprio in relazione a questo c’è da menzionare l’illustre interesse di Donald Trump, che ha caldamente sponsorizzato una politica di tariffe aggressive per l’industria automobilistica americana, con l’obiettivo di riportare in patria lavori manifatturieri ormai migrati altrove. Un giochetto bello sporco per mettersi in tasca i fatidici posti di lavoro, salvo poi assistere a una serie infinita di giravolte delle grandi case automobilistiche.
Oltretutto, la benedizione del presidente Trump non arriva mica gratis. La strategia aziendale si incrocia con quella politica, con John Elkann, presidente di Stellantis, che a gennaio ha gentilmente illustrato i suoi piani al tycoon statunitense, mentre il mercato osservava con il solito mix di scetticismo e interesse ipocrita.
Insomma, un gioco delle parti dove numeri, investimenti faraonici, promesse di crescita e ondate di costi “una tantum” si intrecciano in un balletto perfetto. Tutto per mantenere viva la sensazione di un colosso in salute, quando in realtà si cerca solo di coprire le crepe con un po’ di vernice luccicante, sperando che nessuno si accorga del trucco prima della prossima trimestrale.



