Come un divieto sul formaggio ha piantato un nuovo chiodo nella scassa relazione tra Regno Unito e Ue

Come un divieto sul formaggio ha piantato un nuovo chiodo nella scassa relazione tra Regno Unito e Ue
Unione Europea, le tensioni tra Regno Unito e continente sono vive e vegete. Con aria da protagonisti, gli inglesi decidono improvvisamente di vietare l’importazione personale di formaggi e salumi europei, tutto in nome della lotta alla fantomatica “sindrome della lingua blu”… ops, no, della febbre aftosa, quella malattia adorata per giustificare divieti improbabili.

Ad aprile, la perfida Albione ha decretato che i viaggiatori in rientro dall’UE devono rinunciare al piacere di riportare a casa formaggi, chorizo, prosciutto Serrano e quant’altro appartenga alla gioiosa famiglia dei latticini e carni “proibite”, anche se sigillati o acquistati duty-free. Addirittura dolci, biscotti e cioccolato con una percentuale sospetta di panna fresca o latticini incontaminati diventano contrabbandi di prima categoria. E guai a chi osa oltrepassare la dogana con queste delizie: multe da 5.000 sterline, roba da far girare la testa!

Ovviamente, miracolosamente queste restrizioni non valgono per le importazioni commerciali, che “godono” di controlli ben più stringenti – scusa scusa, ma qui non si capisce se si stia proteggendo la salute pubblica o il business dei “grandi” importatori.

Passando all’altra sponda della Manica, in Parigi le botteghe di formaggi, specialmente quelle attorno alla stazione Gare du Nord (l’imbocco del tunnel per la perfida Albione), tirano fuori gli occhi quando vedono svanire i clienti inglesi, punto fermo della loro clientela da anni.

Alexandre Vilaca, fondatore e direttore della Fromagerie Ferdinand, racconta con un pizzico di amarezza che i britannici acquistavano regolarmente prelibatezze sigillate sottovuoto per evitare problemi al ritorno a casa, diventando abituali e graditi clienti. Ora? “Qualche mese fa mi hanno detto che è proibito portare il formaggio a casa. E questo ha colpito duramente le nostre vendite verso il Regno Unito.”

Ecco il colmo: Vilaca ci tiene a sottolineare quanto le autorità francesi eseguano ispezioni ultra-rigorose per garantire la sicurezza sanitaria, talmente rigide da far impallidire i controlli britannici stessi. E non è un problema solo francese: perfino i produttori inglesi di formaggi con cui lavorava sono rimasti infastiditi dal divieto.

Con un moto di orgoglio francese, sintetizza l’amarezza: “Ci fa piacere che i clienti riportino a casa qualche souvenir gastronomico, un po’ di Francia nelle loro valigie. Ma qui ci rimaniamo male, e da punto di vista commerciale non è affatto una buona notizia.”

Ma che paura è questa febbre aftosa?

Facciamo un passo indietro e illuminiamo la questione: queste misure drastiche non sono una novità, dato che anche l’UE ha imposto un divieto permanente per i britannici riguardo all’importazione di prodotti animali e lattiero-caseari, ovviamente con la scusa sempreverde di prevenire la diffusione di malattie contagiose.

La famigerata “febbre aftosa” (che spaventa tanto gli allevatori e i burocrati della sanità animale) non rappresenta un rischio diretto per gli umani, ma si diffonde come l’ossessione nelle stalle di bovini, ovini e suini. L’Europa interconnessa, con i suoi mercati agricoli integrati, è il posto ideale per il rapido “contagio” tra bestiame. Dettagli di poco conto come questo però non fermano campagne contro i piccoli trasgressori armati di formaggio.

All’inizio dell’anno, Germania, Ungheria e Slovacchia hanno registrato focolai di FMD, prontamente arginati con metodi non proprio teneri: abbattimenti selettivi del bestiame, zone di protezione e sorveglianza a tappeto. Ma questa strategia “da manuale” sembra non bastare al Regno Unito, che preferisce erigere un muro contro il formaggio europeo portato in piccole dosi da turisti affamati.

Naturalmente, tutto ciò lascia spazio a molte domande: è una questione di salute pubblica? Oppure un ridicolo gioco di potere e controllo commerciale? Dopotutto, i divieti colpiscono proprio i piccoli portatori di souvenir gastronomici, non certo la grande industria, che può permettersi certificazioni improbabili e bagni termici.

Ungheria e Slovacchia il 28 marzo 2025 a Medvedov, Slovacchia. Il Paese ha dichiarato lo stato di emergenza dopo vari casi di febbre aphteosa nella regione, incluse nuove propagazioni in Ungheria, proprio alla frontiera slovacca vicino a Bratislava. Ovviamente, perché non c’è niente di più rassicurante di una barriera sanificata in mezzo all’Europa.

Quelle misure d’emergenza sono state miracolosamente sospese appena Germania ha ottenuto lo status di area libera da febbre aphteosa nell’aprile seguente, con Ungheria e Slovacchia felici di poter aggiornare l’agenda “nessun nuovo focolaio”. Speriamo che questa cronaca di annunci rassicuranti duri più a lungo del solito dietro-front politico europeo, eh.

Verso fine luglio, il Dipartimento per l’Ambiente, l’Alimentazione e gli Affari Rurali inglese (Defra) ha voluto di nuovo rassicurarci con un report dove si definisce “basso rischio” (leggasi: raro, ma mai dire mai) l’arrivo di nuovi casi di febbre aphteosa nel Regno Unito. Naturalmente, accompagnando questa illuminante dichiarazione con la nota scaramantica che il virus può tranquillamente nascondersi per mesi senza farsi notare. Insomma, il rischio è come un visitatore indesiderato che non sai quando ti busserà di nuovo alla porta.

Nel frattempo, il governo britannico si prende cura dei suoi contadini come se fossero preziosi trofei da salvaguardare, mantenendo il divieto di importazione personale di formaggi e carni. Del resto, cosa c’è di meglio che proteggere il mercato interno bloccando le semplici passioni culinarie di chi osa voler portare a casa una fetta di formaggio europeo? Defra ha annunciato di aver investito un miliardo di sterline per un Centro Nazionale di Biosicurezza, così da difendere eroi silenziosi come i nostri agricoltori da malattie “animalier” e minacce alimentari. Romanticismo agricolo alla massima potenza.

Tuttavia, a quasi sei mesi dall’introduzione del divieto, qualcuno inizia a domandarsi se non si stia esagerando un filo. Le restrizioni perpetue sfiorano ormai il ridicolo, soprattutto visto che altri Paesi europei si stanno tranquillamente scrollando di dosso questa limita sanitaria come fosse un fastidioso zanzara estiva. Ma no, Defra è solo davvero rispettoso delle pratiche europee post-Brexit — insomma, chi si schioda da una linea dura implacabile, vero?

Alla fatidica domanda “quando si potrà togliere questo fastidioso divieto?”, l’ufficio stampa del ministero risponde con il classico gioco delle parti: “La risposta a questa emergenza febbre aphteosa è in costante revisione” e “le restrizioni resteranno valide fintanto che permarrà il rischio d’importazioni personali.” Tradotto: aspettatevi di continuare a vedere quegli sguardi accusatori ogni volta che provate a riportare un bel formaggino straniero.

Lezioni dure ma… probabilmente dimenticate

Il Regno Unito e l’Unione Europea hanno avuto modo di conoscere a fondo cosa significhi davvero una crisi da febbre aphteosa, anche se qualche smemorato sembra ignorarlo. Nel 2001, l’epidemia partita proprio dal Regno Unito ha devastato l’agricoltura inglese: sei milioni di animali abbattuti come se fosse un massacro epico e un conto salatissimo da otto miliardi di sterline tra pubblico e privato. Per dirla con altre parole, un successo totale, ma negativo, almeno per gli allevatori.

In terra europea, quel disastro si è tradotto nella perdita di quattro milioni di animali e, ben più amaro, un conto da 2,7 miliardi di euro pagati tra misure di contenimento ed indennizzi vari. Eh sì, gioie da manuale nella gestione delle emergenze agricole comunitarie. Per chi pensasse che le bolle ormai fossero scoperte, l’ultima episodica ondata inglese del 2007 ha coinvolto appena otto allevamenti, ma ha inguaiato tra divieti e restrizioni sui movimenti ben oltre 147 milioni di sterline di danni. Insomma, la febbre aphteosa non scherza, anche se qualche burocrate sembra igorarlo quando decide di tenere divieti eterni.

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