Roberta Metsola, presidente del Parlamento Europeo, sarà presente al vertice per rappresentare l’istituzione e terrà un discorso rivolto ai capi di Stato o di governo alle 10:00, seguito da una conferenza stampa verso le 11:30, direttamente dalla sala stampa del Consiglio Europeo, trasmessa in streaming sul sito del Parlamento.
Nel suo rituale incontro a Bruxelles, i leader europei si dedicheranno a discutere i modi in cui l’Unione Europea potrà continuare a supportare l’inarrestabile resistenza ucraina contro la “dolce” aggressione russa. All’ordine del giorno anche la “maravigliosa” risposta dell’UE al recente accordo di pace in Medio Oriente, quello che ha portato alla liberazione degli ostaggi rimanenti e al ritiro di Israele da Gaza — ovviamente dopo la “pacifica” prima fase dell’accordo fra Hamas e Israele. Ma non finisce qui: la saggezza europea si concentrerà anche su come fortificare la competitività economica con investimenti pubblici “illimitati” e riforme “profondissime”, un’elegante soluzione alla crisi abitativa, alla politica di difesa e sicurezza, e ovviamente alla gestione dei flussi migratori e alla protezione delle frontiere, che non mancherà di provocare dibattiti senza fine.
La grande messa in scena parlamentare
Il 22 ottobre il Parlamento ha gettato il cuore oltre l’ostacolo, debattendo sulle proprie priorità per il vertice in una performance degna di un teatro, con la partecipazione della presidente della Commissione Ursula von der Leyen e della ministra danese per gli Affari Europei, Marie Bjerre. Per chi ha tempo da perdere, il tutto è disponibile in diretta streaming, con la speranza di riuscire a trattenersi dallo schiacciare il tasto “mute”.
La guerra della Russia contro l’Ucraina: un gioco di potere senza fine
Il 21 ottobre, con il solito tocco di fantasia di Bruxelles, si è parlato di un “prestito-riparazione” per finanziare la ricostruzione e la difesa dell’Ucraina. L’idea geniale? Sbloccare la non trascurabile somma di 185 miliardi di euro congelati nei conti della banca centrale russa. Naturalmente, non si toccheranno direttamente i soldi: l’Ucraina dovrà restituire questo “prestito” solo quando la Russia, quella che si suppone abbia l’agenda della pace scritta da chissà chi, pagherà risarcimenti. Un passo avanti nel teatro dell’assurdo, annunciato dalla presidente von der Leyen durante il suo ormai famoso discorso sullo stato dell’Unione, con la speranza che almeno questa volta, tra tutte le parole spese, qualcosa sia reale.
Il giorno successivo, in un tripudio di unanimità un po’ “pilotate”, eurodeputati, Consiglio e Commissione hanno idealmente stretto la mano per un “sostegno unito” all’Ucraina e una pace giusta, duratura ma rigorosamente alle condizioni di Kiev, ovviamente senza cedere un millimetro alle pretese di Putin, nonostante il vertice di Budapest fosse alle porte. Decisamente un balletto di politica e retorica in salsa europea degno dei migliori scenari drammatici.
Le sedute parlamentari su come finanziare l’Ucraina con fondi europei e usare i beni russi congelati hanno catalizzato l’attenzione, esponendo con brillantezza la capacità di Bruxelles di mescolare idealismo e realpolitik a ritmo serrato.
Il 22 ottobre, il Parlamento ha persino dato il via libera a negoziati con il Consiglio per il graduale bando alle importazioni di gas naturale, gas naturale liquefatto, petrolio e prodotti petroliferi provenienti dalla Russia dal 2026. Le nuove “regole del gioco” prevedono che le aziende energetiche possano invocare la “forza maggiore” per annullare i contratti di importazione gas russi, col pretesto che il divieto è un atto sovrano e incontrollabile. Ma attenzione, perché dal 2026 sarà vietato anche lo stoccaggio temporaneo di gas d’origine russa negli impianti europei vera classe di guerra economica a suon di algoritmi burocratici!
Non basta: dal primo gennaio 2026 sarà divieto assoluto di importare petrolio russo, insieme ai prodotti derivati dal greggio russo, sempre sotto la scrupolosa dogana europea che dovrà vigilare sull’effettiva provenienza. Insomma, un grande spettacolo di burocrazia per sferrare un colpo economico mascherato da moralismo geopolitico.
L’aria, i droni e le minacce ibride: la nuova frontiera della paranoia europea
Più o meno a inizio ottobre, il Parlamento ha approvato una risoluzione che condanna con enfasi le violazioni russe dello spazio aereo dell’UE, proponendo niente meno che una risposta “unita” dell’Unione alle minacce ibride dalla Russia, con una collaborazione sempre più intensa con l’Ucraina per sviluppare tecnologie anti-drone. Pare che la parola d’ordine sia “azione coordinata, unita e proporzionata”, compreso l’abbattimento di minacce aeree, perché se non ora, quando?
Ovviamente, questo vuol dire supportare iniziative come la famosa “barriera di droni UE” e la tanto sbandierata “Eastern Flank Watch” per monitorare le minacce lungo il fianco sud-orientale dell’Unione. Il tutto condito da un monito a non dimenticare gli Stati membri più esposti, perché la sicurezza europea è roba seria, o almeno così ci dicono.
Il quarto viaggio in Ucraina: solidarietà o strategia?
Il 17 settembre, la presidente del Parlamento Roberta Metsola ha fatto il “bis” e il “tris”, recandosi per la quarta volta in Ucraina da quando la guerra russa è scoppiata, come se la quarta fosse la buona. Ha incontrato, con tutta la solennità di un invito diplomatico, il presidente Volodymyr Zelenskyy per parlare di tante belle cose: dai negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’UE, al sostegno continuo di Bruxelles, fino alla spietata questione delle sanzioni mirate a Mosca e all’utilizzo dei profitti dei beni russi congelati per la difesa e la ricostruzione ucraina.
Una conferenza stampa congiunta ha immortalato l’evento, dando l’impressione di un’efficienza istituzionale che, come spesso accade, cela l’abisso dell’investimento concreto e dell’efficacia reale.
In parallelo, Metsola ha inaugurato… beh, potremmo dire che il cerimoniale prosegue con la stessa solerzia con cui l’Unione affronta i problemi reali: in pompa magna, ma senza stravincere.
Ah, guarda un po’: il Parlamento europeo, nella sua saggezza infinita, ha inaugurato un ufficio antenna a Kiev. Perché certo, cosa c’è di meglio che buttare soldi pubblici in una mera presenza simbolica, invece di risolvere problemi concreti? Ma non temete, c’è molto di più nel menù delle meraviglie istituzionali.
Come ciliegina sulla torta, i nostri valorosi eurodeputati si sono messi d’accordo per smettere di comprare gas e petrolio dalla Russia. Una mossa geniale, quasi una trovata pubblicitaria più che una politica energetica seria. Naturalmente, mentre gridano all’unisono, pretendono una risposta “unificata” dell’UE contro le “minacce ibride” russe. Insomma, tanta grancassa e poca sostanza: vietiamo, condanniamo, ma poi ci arrabattiamo a trovare fornitori alternativi—magari anche più costosi. Bell’esempio di coerenza.
Il presidente del Parlamento Roberta Metsola, in visita nella travagliata Ucraina, ha espresso tutto il suo sostegno: un vero e proprio show di solidarietà a cui fa da sfondo la realtà crudele di un Paese dilaniato dalla guerra. Ovviamente, nessuno si prende la briga di mettere sul tavolo soluzioni concrete, preferendo parole roboanti e foto ufficiali. Insomma, scattiamo selfie e resteremo amici sul web.
Questione mediorientale? La solita pantomima
Nel grembiulino pacifista, il Parlamento europeo ha tentato un dibattito sulla pace in Medio Oriente, con tanto di intervento della commissaria Dubravka Šuica. Peccato però che la pace per Gaza sia solo un’illusione da cartolina. La promessa di aiuti europei per l’implementazione dell’accordo di pace è come una promessa elettorale: facile da fare, difficile da mantenere.
Il Parlamento ha pure adottato una risoluzione strappalacrime che sostiene la creazione di uno Stato palestinese come prerequisito per la pace e la sicurezza israeliana. E sì, hanno anche parlato di demilitarizzazione di Gaza, rilascio ostaggi, e indagini su violazioni di diritto internazionale. Tutto molto nobile, peccato però che nessuno nei corridoi di Bruxelles abbia davvero intenzione di spingere queste idee fino in fondo. In fin dei conti, meglio mantenere in piedi la telenovela, così tutti tengono alta l’attenzione senza fare alcunché.
Difesa europea o show di favole?
Il colpo di scena arriva con la presunta svolta della difesa europea. Dopo negoziazioni che sembrano più rituali danze tribali, Parlamento e Consiglio hanno approvato un programma per “rafforzare” l’industria della difesa europea. In realtà, ogni tanto si alza il budget e si aggiungono strumenti finanziari più o meno oscuri, con nomi altisonanti come “Instrumento di Supporto all’Ucraina”. Sì, perché a quanto pare bisogna modernizzare l’industria militare ucraina, e l’UE ci mette fino a 300 milioni di euro. Sapete, quei soldi veri, quelli che in passato avremmo potuto usare per sanità o istruzione, ora servono a comprare carri armati.
La “regola del compra europeo” garantisce che i soldi pubblici vadano a produttori continentali, così almeno gli Stati membri possono applaudire il patriottismo economico mentre l’Europa si micidializza con i robottini della guerra. Questo, ovviamente, mentre i piccoli imprenditori e le “tecnologie duali” (quelle che fanno sia il caffè che i missili) ricevono qualche briciola, giusto per non farli sentire esclusi. Nel frattempo, si raccomanda pure una riduzione della dipendenza da paesi terzi, che è un modo elegante per dire “lasciamo a casa i cinesi” ma senza troppo impegno.
Insomma, tutto questo equipaggiamento di facciata serve a ottenere un nome altisonante, come “Piano ReArm Europa”, ma di armi e soldi veri ce ne vogliono molti di più. È come costruire una Ferrari con i Lego e aspettarsi di fare la Formula 1: charmante ma totalmente inutile.
La tangenziale della coerenza europea
E se tutto questo vi sembra un paradosso, beh, avete ragione. Un’esemplare dimostrazione di come l’UE riesca a saltare da una crisi all’altra senza mai affrontarle davvero. Vietiamo qualcosa da una parte, promettiamo la luna dall’altra, e nel frattempo prepariamo un arsenale di parole vuote e promesse mai mantenute. È il karaoke delle istituzioni europee, dove tutti cantano all’unisono ma nessuno ascolta davvero la musica.
La domanda forse è un’altra: con tutto questo budget e questa retorica, chi paga il conto finale? E soprattutto, fino a quando giocheremo a questo gioco di prestigio con la pace, la sicurezza e la diplomazia? Ma ancor più importante: qualcuno tra loro sa davvero dove stanno andando, o si limitano a girare in tondo con stile?
Il continente europeo decide di darsi la zappa sui piedi con la sua idea brillante di unire le difese sotto una sola bandiera. Inevitabile, dunque, mettere nel conto qualche grattacapo fiscale che nessuno sembrava voler considerare: perché se la difesa diventa “unione”, la fiscalità fa la guerra.
Naturalmente, nella sterminata lista di priorità dell’Unione Europea, non poteva mancare la “semplificazione” delle regole. Di che cosa? Ma ovvio, delle pratiche burocratiche soffocanti che strangolano le aziende europee, quelle stesse aziende che dovrebbero trainare la tanto sospirata “competitività europea”. Peccato che tra un documento in più e un modulo in meno si perda almeno metà del tempo che servirebbe per capire dove stia davvero il problema.
Il pacchetto “omnibus” della Commissione Europea, presentato a febbraio 2025 con tutto il suo sfarzo, dovrebbe rivoluzionare la semplificazione a favore delle imprese. Pare che i parlamentari, nel frattempo, non abbiano resistito e abbiano già adottato a spron battuto alcune delle proposte, con la solita fretta che tanto bene fa ai risultati concreti. La Presidente Roberta Metsola, in un discorso all’incontro informale dei leader a Copenhagen il 1° ottobre, ha sentenziato con enfasi che questa semplificazione “porterà più posti di lavoro, maggiore stabilità e, ciliegina sulla torta, più sicurezza”. Come direbbero gli antichi: tripletta perfetta, peccato che non sia ancora riuscita a spiegare come.
Il 22 ottobre il Parlamento ha deciso di votare la propria posizione su due globi di fuoco: il rapporto sulla sostenibilità semplificata e l’agognata snellitura degli oneri della due diligence (per chi mastica di affari, una specie di certificazione di moralità aziendale). Tutto questo prima dell’atteso giro di negoziati con i governi UE previsto per la plenaria di novembre a Bruxelles. Immaginate: negli ultimi mesi si è gettato nel calderone normativo in ritardo qualcosa che ora si vuole alleggerire per non affogare le aziende sotto montagne di scartoffie. Il compromesso? Un altro pacchetto di semplificazioni, la “Omnibus I”, che il 26 febbraio 2025 dovrà farsi strada tra lo scetticismo generale.
Vogliamo anche citare l’emozionante puntata del Parlamento che, l’8 ottobre, ha preso posizione su una questione quasi romantica: la politica agricola comune (PAC). Finalmente gli agricoltori potranno godere di maggiore flessibilità per mantenere la terra in condizioni “buone”, cioè non spoglia come i loro portafogli, ricevere pagamenti “obbligatori” in caso di catastrofi naturali (come se non bastasse la crisi climatica che già se la prende con loro) e persino beneficare di tetti di sostegno più alti per i piccoli fattori. Per velocizzare il tutto, hanno deciso che gli aggiornamenti dei piani strategici nazionali 2026 entreranno in vigore prima dell’approvazione della Commissione, un piccolo gesto di ribellione verso la lentezza burocratica.
Non dimentichiamoci del meccanismo europeo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM), quel gioiellino introdotto per non farci sentire troppo in colpa mentre continuiamo a importare acciaio e cemento sporchi. Il Parlamento lo ha preso in mano il 10 settembre, ammorbidendo un po’ le regole con una soglia che esenta il 90% degli importatori. Insomma, il grosso passa, il pesce piccolo no. Le procedure autorizzative adesso sono “semplificate”, così almeno non si rischia di impazzire con calcoli di emissioni e verifiche infinite. Il tutto mantenendo, dicono, l’ambizione climatica: il 99% delle emissioni di ferro, acciaio, alluminio, cemento e fertilizzanti resta sotto controllo. Che generosità!
Crisi abitativa? Il Parlamento si muove… a passo di lumaca
Con la crisi delle case che si fa sempre più grave in Unione Europea, il Parlamento ha deciso di aprire un’ennesima Commissione Speciale a gennaio 2025: finalmente qualcuno si occupa dell’emergenza abitativa, peccato che sembri più un esercizio di stile che una soluzione concreta. L’obiettivo è proporre case decenti, sostenibili e possibilmente a prezzi accessibili (ma senza dazzare troppo il mercato immobiliare, che è un po’ come chiedere a un lupo di fare il guardiano delle pecore).
I deputati hanno girato mezza Europa (da Vienna a Parigi fino all’Italia) per capire come si muovono le case sociali, i modelli innovativi di edilizia abitativa e quanto le misure europee e nazionali influiscano realmente sulle comunità locali. Inevitabilmente, sono emerse molte belle parole e pochi fatti. In parallelo, si è discusso della famigerata “finanziarizzazione” del mercato immobiliare, cioè quella nuova sfumatura di speculazione che ha reso l’abitazione un affare da banchieri più che da cittadini.
Hanno anche incontrato la Banca Europea per gli Investimenti che ha presentato il suo piano d’azione per sostenere case economiche e sostenibili, perché trascurare il problema non è più un’opzione (anche se, per essere sinceri, farlo diventare un’opzione è stato del tutto comprensibile finora).
Ovviamente il bello arriva dopo: questa splendida normativa attende ancora il sigillo formale del Consiglio affinché possa diventare operativa. Che suspense impetuosa, vero?
Un tocco di polizia europea contro i trafficanti di migranti
Il 25 settembre, dopo un’agile danza diplomatica tra Parlamento e Consiglio, è stato messo un altro pezzo nel mosaico della lotta contro il traffico di migranti e la tratta di esseri umani. Come ciliegina sulla torta, è stato deciso di creare all’interno di Europol un centro stabile, il cosiddetto Centro Europeo Permanente per la Lotta al Traffico di Migranti (ECAMS). Questo centro promette di irrobustire la cooperazione tra la polizia europea, le autorità giudiziarie di Eurojust e gli agenti di frontiera di Frontex, mentre i paesi membri saranno spronati a collaborare in indagini congiunte. Una cornice ideale per combinare efficienza burocratica e lungimiranza politica, o almeno così raccontano.
Curiosamente, il 9 settembre un accordo di cooperazione tra le forze di polizia di Europol e la polizia federale del Brasile ha avuto il piacere di vedere luce, autorizzando un flusso di dati personali e non per combattere crimini seri e terrorismo. Un passo avanti nel mondo dei dati che non smette mai di stupire, specialmente nell’epoca della privacy messianica a comando.
L’ingresso e l’uscita sotto l’occhio vigile dell’UE
Il 8 luglio, i prodi eurodeputati hanno dato il via libera definitivo al Sistema Entrata-Uscita (Entry-Exit System, EES), ovvero il sistema destinato a sostituire il romanticismo nostalgico del timbro sul passaporto con la fredda, inflessibile registrazione elettronica degli attraversamenti dei confini esterni dell’UE per i cittadini non comunitari. Un altro capitolo delle meravigliose banche dati interoperabili che promettono di rendere i controlli di frontiera più sicuri e rapidissimi, a patto che tutti gli Stati membri trovino la bacchetta magica per adattarsi al sistema in soli 180 giorni. Non c’è nulla di più rassicurante di un modulo informatico in più nella gestione delle libertà individuali, vero?
Insomma, il consolidamento di questo apparato di sorveglianza e controllo europeo non solo conferma la predilezione per le soluzioni tecnologiche più avveniristiche, ma festeggia anche la burocratizzazione dilagante che ci accompagna in ogni passo verso l’esterno dei confini comunitari.



