Setacciando le argille di un’antica cava nello Oxfordshire, sono emerse tracce di dinosauri che risalgono a 166 milioni di anni fa: centinaia di impronte lasciate da bestioni giganteschi che dominavano la scena terrestre, un po’ come certe entità nell’economia britannica di oggi, che sembravano essere sopravvissute a tutte le ere, almeno fino a poco tempo fa.
Peccato che, contrariamente al sofisticato mondo dei conglomerati americani, le grandi corporazioni multitasking del Regno Unito siano ormai uno spettro nei musei aziendali. Basta l’ultimo episodio di Smiths Group per battere il chiodo sul loro funerale: l’azienda d’ingegneria quotata al FTSE-100 ha deciso di disfarsi a puntate dei suoi vari rami d’impresa, sancendo ufficialmente la fine della sua incarnazione come conglomerato.
Fondata nel 1851 come gioielliera e orologiaia, Smiths ha goduto di un prestigio mondiale non da poco: pensate, è stata la scelta di Sir Edmund Hillary nel suo storico successo sull’Everest del 1953. Oggi, la sua fama si nasconde con discrezione dietro i controlli di sicurezza aeroportuali, grazie a Smiths Detection, il braccio tecnologico che scandaglia borse e sacchetti di viaggiatori ignari.
Ironia della sorte, proprio questa divisione high-tech è tra quelle messe in vetrina come “da vendere” dall’attuale CEO Roland Carter. E sono già andate in fumo smithiane realtà come Smiths Medical, venduta nel 2022 per un miliardo e rotti a un colosso americano della sanità, e Smiths Interconnect, ceduta di recente a un produttore americano finanziato dalla famosa famiglia Koch. Sorprendente? Non troppo, dato che Carter ha pure gestito direttamente queste business unit nel suo passato, ma evidentemente il romanticismo industriale lascia spazio al business freddo dei dividendi.
La vendita o la scissione di Smiths Detection sono ancora in ballo, ma il copione è già scritto: Smiths si ridurrà a due sole entità, John Crane (sigilli meccanici e filtrazione) e Flex-Tek (componenti per fluidi e gas). Un corposo ridimensionamento che rispecchia il trend più ampio di disgregazione degli antichi giganti, tanto amati da Wall Street ma ormai poco capiti dalle nuove generazioni di analisti britannici.
Quando abbiamo incontrato Carter, la sua posizione era fin troppo chiara e spietata: Smiths era un malinteso per gli investitori, troppo dispersivo, ed è tempo di puntare su un profilo più snello e redditizio. Il risultato? Dal giorno dell’annuncio della frantumazione, il titolo è balzato di oltre il 30%, un capolavoro di marketing aziendale mascherato da strategia industriale.
Nonostante ciò, non si possono ignorare i trascorsi poco convinti dell’azienda. Non molto tempo fa, infatti, Smiths aveva respinto le richieste di uno degli investitori più aggressivi, Engine Capital, che pretendeva proprio questa smembratura “miracolosa”. E non dimentichiamoci di un’altra sentenza corporativa a gran voce contraria all’epurazione: quella di George Buckley, pezzo grosso industriale e comandante di Smiths dal 2013 al 2023, convintissimo fan dei conglomerati.
George Buckley aveva spiegato con tono da oratore da salotto: «Le pure play (aziende specializzate) sono magnifiche in mercati in crescita ma orribili quando i mercati ristagnano. Quindi io sono un amante dei conglomerati.» Parole che oggi suonano quasi come un addio a un mondo che non c’è più.
La fine di un’era per i conglomerati britannici
La “rotta” di Smiths segna davvero la chiusura di un capitolo fatto di conglomerati mastodontici, capaci di spaziare dalla chimica ai tessuti, dal packaging alla produzione di armi o addirittura di panifici. Un esempio? BTR, l’antica British Tyre & Rubber Company, che abbracciava una gamma incredibilmente variegata di prodotti, o Tomkins, che con il suo portafoglio comprendeva dagli accessori moda alle pistole di Smith & Wesson, guadagnandosi il soprannome sarcastico di “gruppo dalle armi ai panini”.
E poi c’era il gigantesco colosso Thorn EMI, che a un certo punto aveva sotto il suo ombrello l’illuminazione, la difesa, la catena musicale HMV, l’etichetta discografica EMI e persino una rete televisiva. Tutto insieme, patriarcato industriale da museo d’altri tempi, ormai solo un ricordo.
In sostanza, il paesaggio economico britannico si sta spogliando di quel vestito poliedrico e complicato, per indossarne uno più pulito e “specializzato”. Un’evoluzione che sa di rinuncia: abbandonare i grandi sogni industriali per scimmiottare il pragmatismo americano, dove ogni impresa punta a un solo core business, e le vecchie bestie ormai non lasciano altro che impronte fossilizzate nella storia.
Ah, le gloriose epopee dei conglomerati britannici degli anni Ottanta, quel periodo d’oro in cui aziende come Thames Television, Trafalgar House e Hanson spadroneggiavano come se fossero imperi invincibili. Per chi non lo sapesse, Trafalgar House non si limitava a qualche semplice giro di affari: aveva fra le mani ben il famoso hotel Ritz, il sontuoso transatlantico QE2 e persino il quotidiano Daily Express. Nel frattempo, Hanson partiva da un giro di veicoli commerciali per trasformarsi in un gigante distribuito tra materiali da costruzione, tabacco, carbone ed energia. Un mix davvero irresistibile.
Tutto ciò era guidato da veri e propri capitani coraggiosi e un po’ avventurieri come Owen Green per BTR, Nigel Broakes per Trafalgar House e Greg Hutchings per Tomkins. Uomini duri, ambiziosi fino all’ossessione, ma soprattutto ferventi cultori dell’arte del acquisire, saccheggiare e vendere per migliorare i conti. E come dimenticare l’ardore degli anni Ottanta nel Regno Unito?
Era il tempo in cui alzare i tassi d’interesse sembrava la panacea per sterilizzare quell’inflazione rampante, e sotto questa mannaia caddero decine di imprese industriali di scarso rendimento. E in mezzo a cotanta drammaticità economica, i nostri super-manager finivano più spesso sulle pagine sociali che su quelle economiche: James Hanson, per esempio, aveva una vita sentimentale degna di un giallo hollywoodiano, tra Jean Simmons, Joan Collins e un fidanzamento con Audrey Hepburn da quasi un anno. Un vero divo d’impresa, insomma.
Ma, ahimè, il sogno imperialista era destinato a finire, sbriciolandosi sotto il peso del proprio orgoglio e delle ambizioni troppo sfrenate. Trafalgar House implose miseramente dopo un fallimentare tentativo di rapina ai danni del fornitore elettrico nazionale Northern Electric. L’immenso conglomerato BTR non riuscì proprio a tenere il passo quando la globalizzazione cominciò a riscrivere le regole del gioco. Tomkins si spezzettò dopo la cacciata di Hutchings, mentre Hanson, colta tra le mani una brutta batosta per un’altra presa di mira, il colosso chimico ICI, si ritirò mestamente, macchiando la propria reputazione a City.
Nonostante i crolli clamorosi, queste bestie da conglomerati non sono del tutto estinte. Il tabacco, ad esempio, ha ancora qualche sigaretta da fumare. Imperial Tobacco, ex proprietà di Hanson, è ancora gigante globale. Cunard, veniva da Trafalgar House, ed è ora parte integrante del colosso dei crocieristi Carnival Corporation. Ah, che ironia, considerando che Carnival comprende pure un altro relitto di conglomerato, P&O Princess Cruises, legato all’oramai quasi mitico gruppo P&O, i cui porti e traghetti sono finiti sotto il controllo di Dubai Port World. Come dire, da Londra a Dubai, la leggenda continua con un tocco esotico.
Lasciando fuori dai giochi il piccolo residuo di Lonrho, oggi aziendina privata che opera nell’Africa sub-sahariana, è quasi un miracolo che il più famoso ex conglomerato britannico ancora esistente sia British American Tobacco. Che, tra una sigaretta e l’altra, in passato ha gestito assicurazioni (come Eagle Star, Farmers e Allied Dunbar), punti vendita (da Argos a Saks Fifth Avenue) e persino un’azienda di carta e imballaggi (Wiggins Teape Appleton). Questo capolavoro di diversificazione si è poi spezzato in seguito a una straordinaria offerta di acquisizione da ben 13,2 miliardi di sterline – mica bruscolini nel 1989 – guidata dai valorosi predatori d’impresa James Goldsmith e Kerry Packer.
E oggi? Il gruppo preferisce navigare al largo come un’entità pura e semplice, libera da distrazioni esterne. Non resta che vedere se attori di oggi, come Smiths, potranno sperare in un futuro altrettanto scintillante sotto la spada di Damocle delle fusioni e acquisizioni. Nel frattempo, brindiamo all’arte di inseguire lune impossibili e al glamour degli anni absurdamente audaci.
L’industria cinematografica del Regno Unito e le tavole della legge di Trump
A proposito di gioie contemporanee, chi sapeva che il settore cinematografico britannico potesse essere così fragile? Pare che una semplice minaccia tariffaria da parte del presidente Donald Trump, con l’ipotesi di balzelli fino al 100% su film prodotti oltreoceano, possa far tremare gli studi di Regno Unito. Dal momento che le sale cinematografiche britanniche arrancano per i soliti biglietti scarsi, buona parte degli introiti arriva dai partner statunitensi. Insomma, con un colpo di penna, tutto un sistema rischia di ritrovarsi con il cerino in mano.
Rachel Reeves, ministra delle finanze britannica, ha detto in un’intervista come il prossimo bilancio autunnale sarà un vero e proprio manuale di sopravvivenza, per affrontare una situazione economica traballante, prezzi alle stelle e costi di prestito governativi che sembrano più un brutto sogno che dati reali.
Per essere più precisi, i dati economici di agosto indicano una crescita del prodotto interno lordo dello 0,1% rispetto al mese precedente, roba che neanche si accorge. E se luglio sembrava già fermo, la revisione lo ha confermato con una lenta marcia sul posto. Saremo curiosi di vedere quale brillante ideona uscirà dal budget di novembre, mentre il Regno Unito tenta di non scivolare nel baratro economico più totale. Che sia invece una trovata spettacolare a tinte drammatiche, come nei film di cui si sta tanto lamentando?
Che meraviglia, come non essere entusiasti di un’economia che si contrae dello 0,1%. Proprio il panorama che desideri per sentirti ottimista e fiducioso, vero? Il duo dinamico Yeo Boon Ping e Holly Ellyatt ci delizia con dati rivoluzionari, mentre il mondo intero si accorge di quanto la situazione non sia proprio rosa e fiori.
Rachel Reeves, nuova regina del tesoro britannico, non perde occasione per rassicurare il pubblico con il suo mantra di rigore fiscale. È così determinata a “ridurre i costi del prestito, abbattere il debito e garantire una crescita economica basata su una piattaforma di responsabilità fiscale” che quasi ti viene voglia di prenderla in parola… o forse no.
Rachel Reeves said:
“Come cancelliera, sono determinata a ridurre quei costi di prestito, abbattere il debito e assicurare che la nostra economia cresca su una piattaforma di responsabilità fiscale.”
Scenari da mercato azionario: brividi e sorrisi amari
Il glorioso FTSE 100 di Londra ha deciso di fare il muso lungo, scivolando giù di appena lo 0,4% nell’ultima settimana, come se fosse una tragedia greca. Fra i protagonisti indiscussi del teatro borsistico ci sono le azioni del settore difesa, eccitate da un altro incontro iper-produttivo tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy. Quel tipo di appuntamenti che fanno sognare i mercati… o forse li confondono soltanto.
Ma ecco il colpo di scena: mentre in America si incrina la fiducia nel credito, qualcosa rimbalza ovviamente fino all’Europa, dove venerdì scorso c’è stato un bel massacro sui titoli bancari, salvo poi vedere un recupero rapidissimo degno di una soap opera. Non male per uno spettacolo che voleva farci preoccupare, giusto?
Intanto la sterlina britannica, con la sua solita modestia, decide di rafforzarsi del 0,5% contro il dollaro statunitense – perché nulla dice “incertezza” come tirare su la valuta nel mezzo di drammi politici ed economici.
I rendimenti sui famigerati titoli di stato britannici a dieci anni, detti “gilts” (che già il nome fa tremare), sono scesi fino al 4,481%. Un placido sollievo per gli investitori, coordinato con dati che svelano un presunto record nella spesa pubblica di settembre: un deficit di prestito pubblico che raggiunge i £20,2 miliardi, roba degna di registrazioni fin dal 1997.
Cosa ci aspetta (forse)
In programma? La serie di appuntamenti più gettonati per gli amanti della suspense macroeconomica: il 22 ottobre, i dati sull’inflazione britannica per settembre; il 23, l’indice di fiducia delle imprese del Confederation of British Industry per il quarto trimestre; e il 24 ottobre, i dati sulle vendite al dettaglio. Una carrellata imperdibile per chi ama passare le serate a sgranocchiare numeri e anticipazioni di crolli o riprese futuri.



