Ah, la cultura del risarcimento nel Regno Unito, un fenomeno che nei primi anni ’90 era praticamente sconosciuto e che oggi possiamo definire un vero e proprio sport nazionale. Tutto ha avuto inizio nel lontano giugno 1995, quando agli avvocati è stato permesso di operare con la formula “no-win, no-fee” (cioè niente vittoria, niente parcella). Il principio, per quanto ingenuo, sembrava quasi carino: estendere l’accesso alla giustizia rendendo più facile per chiunque farsi giustizia da solo. Peccato che nessuno abbia dato troppo peso agli avvertimenti riguardo all’arrivo degli ignobili “ambulance chasers”, gli sciacalli delle richieste speculative.
Come previsto, entro il 2000 le richieste di risarcimento erano quadruplicate rispetto al 1992, spuntando come funghi in aree in cui prima regnava l’idillio, come i problemi di stress sul lavoro. L’avvento di internet e le campagne pubblicitarie roboanti delle imprese di gestione delle richieste, come The Accident Group e Claims Direct, hanno fatto il resto. Quest’ultima, celebre per il suo slogan “Dove c’è colpa, c’è risarcimento,” è crollata sotto il peso delle denunce quando un importante quotidiano ha illuminato il pubblico su come la maggior parte degli indennizzi finisse in commissioni che avrebbero potuto finanziare una colonia penale.
Ah, ironia della sorte, Claims Direct è stata poi trascinata davanti ai tribunali da ex azionisti insoddisfatti, affidandosi alla stessa strategia “no-win, no-fee” che avevano contribuito a diffondere.
Il genio oggi è fuori dalla bottiglia, e generazioni di britannici hanno scoperto quanto sia piacevole inseguire un risarcimento a costo quasi zero.
Il caso più clamoroso di questa sindrome da risarcimento è stato certamente lo scandalo delle Payment Protection Insurance (PPI), polizze assicurative destinate a proteggere i mutuatari in caso di morte, malattia o perdita del reddito. Politiche più redditizie dei prestiti stessi per gli istituti bancari, vendute a milioni, circa 16 milioni tra il 2005 e il 2011. Peccato che molte fossero state vendute col trucco, con clienti convinti di doverle sottoscrivere per ottenere il mutuo o addirittura ignari di averle.
Lo tsunami di richieste di rimborso che ne seguì si portò via una montagna di soldi — circa 50 miliardi di sterline — con le società intermediarie che, come sempre, si abbuffarono allegramente delle commissioni.
La nuova frontiera della truffa: il Personal Contract Purchase (PCP)
Ed eccoci al presente, all’ultima trovata nella roulette russa del vendere macchine e spillare soldi a ignari automobilisti. Il Personal Contract Purchase, o PCP, è l’invenzione geniale che ha trasformato l’acquisto dell’auto in un interminabile contratto di leasing con menzogne incorporate. Presentato per la prima volta nel 1992 da Ford UK, il PCP ha preso il volo soprattutto dopo la crisi finanziaria globale, quando i tassi d’interesse precipitarono vicino allo zero.
Il trucco? Il cliente versa un anticipo al concessionario e poi paga rate mensili basse che coprono solo la svalutazione dell’auto, non il suo prezzo pieno. Alla fine del contratto, si può scegliere di saldare una somma finale per tenersi la vettura o — qui sta il bello — ricominciare tutto da capo con un’altra auto nuova. Un modo perfetto per tenere i sudditi britannici inchiodati a un eterno affitto mascherato da acquisto.
Il sistema ha avuto così successo che nel 2016 ben nove vetture nuove su dieci erano vendute con questa formula. Ironia della sorte, molti anticipi provenivano proprio dai rimborsi PPI, alimentando questa babele di debiti e distrazioni finte.
Ma, come nel caso delle PPI, anche qui la fregatura regna sovrana. Non si tratta solo di commissioni spropositate o di rivenditori ufficialmente legati a un solo finanziatore; la piaga più diffusa è il trucco dell’interesse maggiorato: a più alto tasso pagato dal cliente, più alta la commissione per il malcapitato venditore. Un sistema perverso che ha avvelenato ben 11,4 milioni di contratti, secondo alcune stime.
In altre parole, il cliente va a comprare un’automobile e si ritrova ad acquistare un debito in salsa finanziaria, con la brillante sorpresa di dover pagare fino a decine di migliaia di sterline in più solo per una firma ingannevole o una mancata spiegazione. In un paese che ormai si identifica col risarcimento come forma d’arte, è un capolavoro.
A un certo punto, sembrava che lo scandalo potesse trasformarsi in una sorta di PPI su ruote, soprattutto dopo che la Corte d’Appello del Regno Unito aveva dato ragione agli automobilisti con una sentenza a ottobre dello scorso anno. Le stime di compensazioni per un totale di ben 44 miliardi di sterline hanno iniziato a girare come fossero caramelle in una festa. Ovviamente, le banche hanno fatto appello alla Corte Suprema e, in gennaio di quest’anno, il Tesoro britannico ha addirittura chiesto, in modo insolito, di intervenire nel caso, temendo – chissà mai come – che i pagamenti da capogiro potessero compromettere la capacità del settore bancario di sostenere l’economia. Che generosità! Peccato che la Corte Suprema abbia rifiutato questa richiesta, ma in agosto ha sentenziato a favore dell’industria in due casi su tre, lasciando comunque aperta la possibilità per le richieste di risarcimento.
La Financial Conduct Authority (FCA), il regolatore finanziario britannico, ha annunciato la settimana scorsa che i rimborsi dovrebbero essere pagati per circa 14 milioni di contratti stipulati tra il 6 aprile 2007 e il 1 novembre 2024, con un costo stimato per l’industria di circa 11 miliardi di sterline. Non sorprende che le banche stiano rapidamente alzando le riserve: il Lloyds Banking Group, la più grande banca domestica del Regno Unito, lunedì ha incrementato le riserve da 1,15 a 1,95 miliardi di sterline; la Close Brothers ha quasi raddoppiato le sue, portandole da 165 a 300 milioni di sterline. Insomma, far scorrere il denaro è diventato per loro una pratica consolidata.
Ma tranquilli, non è finita qui. La FCA sta ancora limando i dettagli del meccanismo di risarcimento e, in un annuncio al mercato degno di una soap opera, il Lloyds ha promesso di inviare “osservazioni” al regolatore. Parrebbe che la FCA rischi di restituire ai clienti più di quanto abbiano realmente perso. Che magnanimità, davvero! Anche un altro saldatore del sistema finanziario, la sudafricana FirstRand, ha puntato il dito, definendo le modalità della FCA “né proporzionate né ragionevoli”. Insomma, i pesi e le misure sono a discrezione.
Ovviamente, neanche i bracci finanziari delle case automobilistiche sono contenti. The Times ha riportato lunedì che la BMW, che si aspetta un colpo da 200 milioni di sterline, ha già chiesto incontri con il ministro delle Finanze Rachel Reeves. Un’ulteriore bega che lega mani e piedi il governo e un suo stesso regolatore. Perfino Marcus Bokkerink, ex presidente della Competition & Markets Authority, è stato silurato a gennaio – con il governo impegnato al vertice di Davos, naturalmente – per presunto scarso impegno verso la crescita. Proprio un bel quadretto di efficienza istituzionale.
Charlie Nunn, CEO del Lloyds, a dicembre scorso ha detto candidamente che sentenze come quella di ottobre scorso creano un problema di “investibilità” nel Regno Unito. Se lo dice lui, forse ha ragione. E se la Reeves si schiera dalla sua parte – come suggerisce il tentativo del Tesoro di gennaio di intromettersi nel caso – il confronto con la FCA potrebbe diventare una vera e propria resa dei conti, ricca di colpi di scena.
Nel frattempo, la Bank of England avverte di una “correzione brusca del mercato”. Se scendesse l’entusiasmo attorno agli investimenti legati all’intelligenza artificiale – mica semplice da capire, ma tant’è – insieme a tutte le altre consuete ansie geopolitiche e questioni commerciali sparse, i mercati azionari sarebbero “particolarmente esposti”. Tradotto: preparatevi a qualche mal di pancia finanziario. E non finisce qui: i regolatori britannici hanno assegnato a Google lo status di “attore strategico nel mercato”. Nessun giudizio negativo, per carità, ma una bella spintarella perché cambi la modalità di ricerca nel Regno Unito. Insomma, luce verde a possibili rivoluzioni nel nostro caro motore di ricerca preferito.
Infine, c’è chi sostiene che i genitori troppo prudenti stiano soffocando le ambizioni britanniche, almeno secondo alcuni venture capitalist. Il Regno Unito sembrerebbe avere una mentalità “molto diversa” rispetto agli Stati Uniti, forse un po’ troppo attenta a non correre rischi. Chissà se questa timidezza contribuirà più a salvare portafogli o a affossare sogni e innovazione. La risposta è nel solito, dolce equilibrio tra paura e progresso che contraddistingue il fervore onnipresente del nostro amato mercato globale.
Nel frattempo, la nostra cara sterlina britannica ha ceduto lo 0,8% contro il dollaro americano, forse demoralizzata dai dati sull’occupazione UK, che hanno superato – in negativo – le più rosee aspettative degli economisti intervistati da Reuters. Insomma, per festeggiare, giù di botta. Ma non è finita qui: abbiamo pure il rendimento dei titoli di stato decennali sceso da 4,727% a 4,573%, in una riedizione del classico ‘rischio-tensione’ tra USA e Cina. Ah, il prodigio della politica internazionale che impatta sui mercati come una soap opera made in UK.
Che scena spettacolare: i trader delle obbligazioni si agitano ad ogni segnale di guerra commerciale, ma senza mai decidere dove andare davvero. È rimarchevole quanto entusiasmo ci metta il mondo finanziario a bocciare – o applaudire – una qualsiasi notizia, camminando come surfer senza tavola, in attesa della grande ondata d’investimenti che, chissà, forse cadrà proprio qui, nel freddo e bagnato regno britannico.
Simon Bumfrey, capo della divisione bancaria di HSBC Innovation Banking UK, ci illumina con la sua poetica visione:
“È come un surfista là fuori, che ondeggia aspettando la grande onda [degli investimenti sostenuti]. Ora, quella grande è arrivata qui in UK e dobbiamo cavalcarla.”
La grande onda, quindi: un’espressione così evocativa da far cadere qualsiasi scetticismo, se non fosse che gli indici oscillano come un dondolo arrugginito e la sterlina ondeggia come naufragata in mezzo all’oceano del commercio globale. Una metafora perfetta per il tormento finanziario britannico, che continua a sperare nel miracolo degli investimenti mentre naviga acque torbide di incertezza geopolitica.
Che cosa aspettarsi nelle prossime settimane
Se vi steste chiedendo quando si deciderà l’esito di questa tragicommedia economica, vi anticipiamo le tappe fondamentali, tutte ricche di suspense quanto le ultime puntate di una serie TV britannica di grande successo.
Il 16 ottobre, ci saranno i dati sul PIL britannico, momento clou per capire se la nave UK sta davvero affondando o se riesce a galleggiare a colpi di fiducia (pericolosa, ne conviene, ma sempre meglio del nulla). Il 22 ottobre arriva il rapporto sull’inflazione, quell’indicatore amato da tutti e odiato da chi deve pagare il bolletta. Infine, il 23 ottobre si scoprirà l’indice di ottimismo imprenditoriale del CBI, ovvero l’umore dei signori dell’economia made in UK: se sono ottimisti, magari ci salveremo, altrimenti… beh, allora meglio prendere un divano e godersi lo spettacolo.
Insomma, le prossime settimane saranno uno spasso per chi ama l’ironia finanziaria, con mercati che giocano a nascondino fra dati, tensioni internazionali e ribaltoni politici. Aspettatevi quindi scintille… o almeno qualche battuta sarcastica su come l’UK si prova a vendere come l’isola delle grandi occasioni mentre si dimena in un mare di dubbi.



