AstraZeneca tenta il colpo grosso a Wall Street e il mondo trattiene il fiato

AstraZeneca tenta il colpo grosso a Wall Street e il mondo trattiene il fiato

C’è un vecchio detto britannico sui bus: aspetti una vita che ne arrivi uno e, puntualmente, te ne compaiono due in contemporanea. Lo stesso è successo lunedì scorso agli analisti farmaceutici: i due colossi del Regno Unito, GSK e AstraZeneca, hanno deciso di fare scintille con annunci “strategici”.

GSK ha ufficializzato che Emma Walmsley, l’amministratrice delegata che per nove anni ha guidato l’azienda, porto sicuro durante la separazione della sua ex divisione consumer, ora cloisonnée nel nome di Haleon, abbandonerà la scena al termine dell’anno. Al suo posto? Ni più ni meno che Luke Miels, l’attuale direttore commerciale, un talento “acquistato” da AstraZeneca ben otto anni fa tra non poche polemiche. Insomma, un passato complicato che ritorna.

Nel frattempo, AstraZeneca ha deciso di “armonizzare” la struttura delle sue azioni per ottenere una quotazione globale, adatta a investitori globali in una compagnia globale. Tradotto dal politichese: dice addio agli American Depositary Receipts (ADR) dalla Nasdaq e si trasferisce direttamente alla Borsa di New York, collezionando così un bel tornado di applausi da parte degli investitori, che hanno pure visto le azioni impennarsi dello 0,8% lunedì. Un’adeguata trovata per piazzare nuovi capitali americani, soprattutto se AZ riuscisse – anche se la strada è più in salita di una collina scozzese – a entrare nel prestigioso indice S&P 500.

Per i curiosi, gli ADR non sono altro che certificati negoziabili rilasciati da banche statunitensi, che rappresentano un numero specifico di azioni (di solito una) di società straniere. Questi strumenti, più strani di un tè all’ora di pranzo, sono meno liquidi delle azioni “piene” e quindi incontestabilmente meno attraenti per qualche investitore più abituato a movimenti rapidi e profitti immediati.

Fuga dal Regno Unito: un déjà vu tutto made in UK

A prima vista, questa mossa appare come un’altra sferzata ai danni della London Stock Exchange (LSE), che certo non ha bisogno di ulteriori bacchettate. Erano proprio le stesse tematiche affrontate a luglio quando The Times lanciò l’ipotesi, poi rivelatasi vera, che il CEO di AZ, Pascal Soriot, volesse trasferire la quotazione della società negli Stati Uniti. Il nostro amato Soriot, che vanta tredici anni di regno al timone, si era persino lasciato scappare qualche dichiarazione in cui AZ veniva definita una “società molto americana.” Non è che abbia mai fatto il tifo per il Regno Unito, diciamo.

Va anche segnalato che AZ è solo uno dei tanti grandi gruppi farmaceutici che, esasperati dalle follie sui prezzi dei farmaci imposti dalla politica britannica, hanno deciso di mettere il freno agli investimenti nel Regno Unito. Non sorprende dunque che qualcuno interpreti questa scelta come l’ennesimo schiaffo alla piazza londinese, già piegata da una serie di defezioni illustri tra i suoi ex campioni del FTSE 100.

Giusto per non dimenticare, la sfilata di addii di prim’ordine è iniziata nel 2021, quando il megagalattico BHP Group, un tempo re indiscusso della classifica FTSE, annunciò di volersi concentrare solo sulla Borsa australiana, abbandonando la doppia quotazione UK-Australia. Una mossa apparentemente ingegneristica per risparmiare qualche spicciolo e semplificare il tutto. Nessun allarme: BHP ha infatti mantenuto una quotazione standard a Londra, permettendo così ai suoi fan britannici di non perdere direttamente il contatto con la compagnia, anche se, ammettiamolo, era più una presenza da ufficio di rappresentanza che altro, considerando che di risorse UK vere e proprie c’era ben poco.

Nel 2022, è stata la volta di Ferguson, un eterno vecchio nome ormai celebre, che ha spostato la sua quotazione principale direttamente a New York. Perché stupirsi? D’altronde più del 90% delle sue vendite proveniva da oltreoceano, quindi era tutto molto ovvio.

L’anno successivo, segnatevelo: CRH, il gigante mondiale nella fornitura di materiali per l’edilizia, ha deciso di abbandonare Londra dopo solo dodici anni di presenza come quotazione principale, scegliendo invece New York. Anche qui nessuna tragedia, dato che CRH è tutto fuorché una creatura londinese: con radici irlandesi, fattura tripla negli Stati Uniti e un piede ben piantato in America.

Ma ecco arrivare il colpo di scena: Flutter Entertainment, con il suo impero sulle scommesse che comprende nomi altisonanti come Paddy Power, Betfair e FanDuel negli USA, ha valutato seriamente di scaricare la sua quotazione principale in Gran Bretagna per spostarsi a New York, cosa che ha poi effettuato con entusiasmo. Una decisione che sa di tradimento, visto che Flutter, a parte la sua genesi irlandese, era considerata un pilastro del mercato britannico e un importante player domestico. Certo, quando la cruda realtà dei numeri e del profitto chiama, la patria emotiva passa in secondo piano.

Ma cosa resta davvero a Londra?

Con tutte queste uscite e trasferimenti di quotazioni, viene spontaneo chiedersi quale sia il futuro della London Stock Exchange. Una grande borsa, tradizionalmente al centro del commercio azionario europeo, si trova ora a dover fronteggiare un abbandono silenzioso ma inesorabile da parte delle sue compagnie più emblematiche.

Il tutto mentre le politiche governative continuano a imporre regole sulla determinazione dei prezzi nel settore farmaceutico e non solo, che per molte multinazionali risultano ormai insostenibili o quanto meno poco appetibili. D’altronde, se il governo vuole stabilire i prezzi, le aziende decidono di andare dove i prezzi li fa il mercato, senza troppi rimorsi patriottici.

Forse a Queen Elizabeth Street, dove si trova la sede di LSE, bisognerà prepararsi a salutare un numero sempre maggiore di “amici” in partenza: quando una corda si stira troppo, basta un piccolo fruscio per sentirla spezzarsi. Eppure, la ricetta per invertire la rotta sembra ancora avvolta in quel mistero da thriller finanziario che solo i politici sanno custodire così bene.

Londra, una volta il fiore all’occhiello della finanza europea. Ora, sembriamo assistere a una piccola emorragia di società che decidono di cambiare aria, un trasferimento discreto ma tutt’altro che insignificante verso lidi più attraenti per i capitali, alias New York.

Ci chiediamo: cosa sarà mai successo al Regno Unito per far sì che persino colossi come il progettista di chip Arm Holdings (con la sua sede a Cambridge) preferiscano una lurida quotazione sul Nasdaq piuttosto che l’illustre Borsa di Londra? Semplice, evidentemente la bruma londinese non basta più ad attirare gli investitori.

E cos’è forse accaduto a TUI, l’operatore turistico anglo-tedesco? Ha abbandonato la doppia quotazione tra Londra e Francoforte, scegliendo infine caldo e accogliente Francoforte. Che sorpresa! E che dire della gloriosa Ashtead, azienda di noleggio attrezzature nata nel pittoresco villaggio del Surrey? Anch’essa ha annunciato il trasferimento principale da Londra a New York, dato che ormai il 90% dei suoi affari si svolge nel continente americano. Una mossa logica… se solo Londra fosse ancora il centro del mondo degli affari.

Non è finita: il maltempo della cattiva notizia continua a scendere a pioggia. Just Eat Takeaway ha annunciato a dicembre il passaggio da una doppia quotazione tra Londra e Amsterdam a una unica nella città dei tulipani. Seguendo l’esempio, anche Unilever ha scelto Amsterdam per il suo spin-off dedicato al gelato. Poi ci sono i casi più esotici: il gigante della fast fashion Shein, si dice, ha scartato Londra in favore di Hong Kong per la sua IPO. E la fintech Wise (ex Transferwise), pur di fama londinese e valutata più di 11 miliardi di sterline, ha ottenuto l’ok degli azionisti per spostare la sua quotazione principale a New York. Che bel biglietto da visita per la City!

Ma allora AstraZeneca è un caso a parte? Potremmo dirlo, anche se la verità è che il cambio di rotta non è poi così drammatico come sembra. L’azienda si premura di sottolineare che la sua “attuale condizione di società quotata, con sede e residenza fiscale nel Regno Unito” rimarrà intatta. Quindi tutto a posto: si tratta solo di conquistare nuovi investitori globali e di avere accesso – non noi poveri mortali, ma loro – al gigantesco bacino di capitali di New York.

Inoltre, niente paura per voti di mercato più alti: il rapporto prezzo/utili di AstraZeneca supera non solo i suoi concorrenti europei come Novo Nordisk e Roche, ma anche diversi americani tra cui Pfizer, Bristol-Myers Squibb e Merck. Sembrerebbe quindi più una questione di facciata che di sostanza…

Purtroppo, il governo britannico non dovrebbe crogiolarsi nell’autocompiacimento, perché questa mossa apre la porta a un probabile spostamento totale verso New York se le frustrazioni del CEO di AstraZeneca, Pascale Soriot, riguardo al Regno Unito dovessero esplodere in un’ira irreversibile. Un’avvertenza politica che sembra cadere nel vuoto.

Rachel Reeves, la cancelliera del tesoro, avrebbe una ghiotta occasione di mostrare un minimo di vigilanza e di sensibilità riguardo al rischio di perdere la Borsa di Londra. Un’opportunità che avrebbe – guarda un po’ – proprio grazie alla rimozione dell’odioso e antiquato Stamp Duty Reserve Tax, la tassa dello 0,5% sulle compravendite azionarie che ogni anno fa incassare al Tesoro qualcosa come 3 miliardi di sterline.

Ma non fateci troppo affidamento: parliamo di un governo che, come al solito, preferisce ingrassare le casse dello Stato piuttosto che sostenere un mercato finanziario competitivo e dinamico.

Occhi puntati sul futuro incerto di Londra

Nell’ultimo periodo, indizi inequivocabili suggeriscono che Londra sta perdendo terreno in una gara in cui il denaro chiama altre sedi più “efficaci” e allettanti per gli investitori globali. Non basta certo l’atmosfera storica o la fama del prestigioso FTSE 100 a competere con mercati che offrono condizioni più attraenti e un flusso di capitale meno vessato da tasse anacronistiche.

La domanda seria è: il Regno Unito riuscirà a invertire questa tendenza o sta semplicemente assistendo rassegnato alla sua lenta ma inesorabile migrazione verso l’America e l’Asia? E soprattutto, quale prezzo pagheranno i contribuenti e i lavoratori quando le grandi aziende prenderanno a guardare altrove?

In tutto questo, mentre le grandi multinazionali convenientemente più furbe se ne vanno, la politica continua a nascondere la testa sotto la sabbia o a blaterare pseudo-riforme industriali a lungo termine prive di concretezza, come l’“industrial strategy” ventennale sbandierata dal segretario di Stato al commercio Peter Kyle.

Che dire? Un brindisi all’inefficienza, alla miopia istituzionale e alla beffarda ironia del destino che vede il cuore finanziario d’Europa svuotarsi a favore di zone franche più “business friendly”.

I numeri che non mentono

Il FTSE 100 ha sì guadagnato terreno nell’ultima settimana, salendo dell’1,38%, ma si tratta di un modesto guizzo in un clima dominato dall’incertezza, con sullo sfondo le angosce per un temuto shutdown del governo americano. I rendimenti dei titoli di stato britannici a 10 anni sono usati come barometro della situazione economica e hanno oscillato – un po’ come le decisioni politiche – mostrando nervosismo vivace.

Nel frattempo, la sterlina ha perso terreno contro il dollaro, scendendo dello 0,71% sotto quota 1,34$. Questo dettaglio non è trascurabile: in un mercato globale sovraccarico di opportunità, la valuta nazionale che vacilla è un segnale che gli investitori interpretano benissimo.