Prestatori in panico cercano disperatamente di mettere una pezza al disastro che hanno scatenato

Prestatori in panico cercano disperatamente di mettere una pezza al disastro che hanno scatenato

Gemes si sbilancia senza paura di essere screditato:

«Questa non è la canarino della miniera di carbone, non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima»

Ovviamente, il rischio sistemico derivante da questa implosione è considerato basso, grazie a regole bancarie più rigide post crisi finanziaria globale del 2008 e a protezioni più sofisticate nei CLO (Collateralized Loan Obligations). Eppure, la narrativa torna irresistibilmente a quelle vecchie glorie di crisi storiche, paragonando lo scenario a quello di Greensill Capital nel 2021, con un cocktail letale di ingegneria finanziaria complessa, debiti rischiosi e asset legati ai crediti commerciali.

Una nota firma svizzera nel campo del contenzioso, Lalive, azzarda paragoni tra questo modello di finanziamento misto – credito privato e finanza della catena di fornitura – e quello di Greensill. Evidenzia come la natura off-balance della finanza della catena di fornitura possa mascherare debolezze nascoste e aumentare i rischi di insolvenza. Inoltre, mette a confronto il pantano di UBS con l’esposizione da 10 miliardi di dollari di Credit Suisse ai fondi legati a Greensill.

Lalive scrive, con la sobrietà che lo contraddistingue:

«Le somiglianze strutturali tra i due casi suggeriscono che potremmo non trovarci davanti a un semplice evento di credito.»

Perché, si sa, nei mercati pubblici puoi sempre “sbirciare”. Con un click ti mostri cosa si muove, quanto c’è di liquidità, quali volumi si girano, insomma: puoi stressare tutto finché vuoi. Nei mercati privati? Benvenuti nel buio assoluto. Patrick Ghali, co-fondatore e managing partner di Sussex Partners, non prende mezzi termini con CNBC:

«Ci sono rischi veri e propri.»

Non poteva mancare la comparazione shock da parte del celebre venditore allo scoperto, Jim Chanos, che in un’intervista al Financial Times ha liquidato il credito privato come un ulteriore “strato” tra chi presta e chi prende in prestito, rileggendolo con gli occhiali delle mutande subprime causa della crisi del 2008. Da parte sua, Ghali commenta con pragmatismo e un pizzico di cinismo:

«Molti ormai non ricordano il 2008, distano quasi vent’anni, ma le lezioni che ci ha insegnato sono imprescindibili. Capisco il motivo dell’eliminazione delle banche come intermediarie, capisco l’esistenza stessa di questo mercato. Sono però molto preoccupato e invito a fare i compiti a casa. C’è una quantità di denaro enorme, e ancora crescente, che si sta riversando in questo spazio, ed è una prospettiva che fa accapponare la pelle».

Gemes delizia l’audience con questa perla tutta da soppesare:

«È evidente come gli standard di concessione nel mercato del finanziamento a leva siano i più bassi di sempre. Il credito privato è stato molto aggressivo nell’offrire prestiti “covenant-lite” e una percentuale elevata di prestiti con struttura Payment-in-Kind, ovvero pagamenti in natura, aumentando così il rischio complessivo.»

L’esplosione di First Brands non sarà l’ultima

Da insider del settore arriva il conforto: i guai come quelli di First Brands – nome tanto fiabesco quanto tragicamente reale – stanno diventando sempre più insidiosi da individuare, nonostante una due diligence accanita e spesso affiancata da investigatori privati. Avvistamenti di insolvenze e recuperi assai deludenti si moltiplicherebbero, mentre ben pochi dettagli trapelano perché – sorpresa! – parliamo di mercati privati, per definizione opachi.

Gemes si sbilancia senza paura di essere screditato:

«Questa non è la canarino della miniera di carbone, non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima»

Ovviamente, il rischio sistemico derivante da questa implosione è considerato basso, grazie a regole bancarie più rigide post crisi finanziaria globale del 2008 e a protezioni più sofisticate nei CLO (Collateralized Loan Obligations). Eppure, la narrativa torna irresistibilmente a quelle vecchie glorie di crisi storiche, paragonando lo scenario a quello di Greensill Capital nel 2021, con un cocktail letale di ingegneria finanziaria complessa, debiti rischiosi e asset legati ai crediti commerciali.

Una nota firma svizzera nel campo del contenzioso, Lalive, azzarda paragoni tra questo modello di finanziamento misto – credito privato e finanza della catena di fornitura – e quello di Greensill. Evidenzia come la natura off-balance della finanza della catena di fornitura possa mascherare debolezze nascoste e aumentare i rischi di insolvenza. Inoltre, mette a confronto il pantano di UBS con l’esposizione da 10 miliardi di dollari di Credit Suisse ai fondi legati a Greensill.

Lalive scrive, con la sobrietà che lo contraddistingue:

«Le somiglianze strutturali tra i due casi suggeriscono che potremmo non trovarci davanti a un semplice evento di credito.»

Perché, si sa, nei mercati pubblici puoi sempre “sbirciare”. Con un click ti mostri cosa si muove, quanto c’è di liquidità, quali volumi si girano, insomma: puoi stressare tutto finché vuoi. Nei mercati privati? Benvenuti nel buio assoluto. Patrick Ghali, co-fondatore e managing partner di Sussex Partners, non prende mezzi termini con CNBC:

«Ci sono rischi veri e propri.»

Non poteva mancare la comparazione shock da parte del celebre venditore allo scoperto, Jim Chanos, che in un’intervista al Financial Times ha liquidato il credito privato come un ulteriore “strato” tra chi presta e chi prende in prestito, rileggendolo con gli occhiali delle mutande subprime causa della crisi del 2008. Da parte sua, Ghali commenta con pragmatismo e un pizzico di cinismo:

«Molti ormai non ricordano il 2008, distano quasi vent’anni, ma le lezioni che ci ha insegnato sono imprescindibili. Capisco il motivo dell’eliminazione delle banche come intermediarie, capisco l’esistenza stessa di questo mercato. Sono però molto preoccupato e invito a fare i compiti a casa. C’è una quantità di denaro enorme, e ancora crescente, che si sta riversando in questo spazio, ed è una prospettiva che fa accapponare la pelle».

Tutto questo fuochino è stato alimentato da un cocktail di debito fuori bilancio, giganti prestiti bancari ben distribuiti, e una varietà di altre strutture di prestito “non convenzionali” da far invidia a un libro di finanza creativa. Gran parte di questo indebitamento era supportato da crediti insoluti, factoring e altre fantasiose metodologie di finanziamento della supply chain, spesso con veicoli speciali e CLO come spauracchio.

La società, che produceva candele, tergicristalli, filtri e pastiglie dei freni – un assortimento davvero utile per chi ha ancora un’auto che funziona – ha dichiarato bancarotta secondo il Chapter 11 il 28 settembre. Un tentativo di rifinanziamento fallito ha attirato l’attenzione sui suoi meccanismi debitori, che si aggirerebbero intorno ai 10 miliardi di dollari, una cifra da capogiro, per usare un eufemismo.

Questa tempesta di debiti sembra avere origine soprattutto dai finanziamenti fuori bilancio legati alla catena di fornitura, più presenti nel mercato ampiamente distribuito dei prestiti bancari che non nell’ambito del private credit diretto. Un chiaro segnale che anche il settore più elogiato dell’economia reale sta iniziando a puzzare.

Non dimentichiamo che il mercato dei prestiti privati ha conosciuto un boom negli ultimi anni, diventando una fonte sempre più popolare di finanziamento per l’economia reale. Peccato che dietro l’apparente sostegno si nascondano trappole, debiti nascosti e bilanci che si comportano come funamboli sul filo del rasoio. Un vero spettacolo da non perdere, se amate le tragedie finanziarie.

Orlando Gemes, socio fondatore e direttore degli investimenti di Fourier Asset Management, non si scompone:

«Il livello dei mercati azionari e la stretta degli spread creditizi possono aver creato una sorta di illusione ottica per cui tutto nel mondo appare in una condizione migliore.»

In parole povere, si affanna a giustificare un mercato del credito privato che, tutto sommato, avrebbe fatto un “buon lavoro” nello spostare il credito fuori dai bilanci bancari verso strutture di capitale più lunghe e, presumibilmente, più adatte. Ma attenzione, non è tutto oro quel che luccica: i fondi di credito privato si sarebbero esposti “solo in modo limitato” sull’enorme debito di quasi 10 miliardi di dollari di questa fantomatica società di componenti auto. Una pezza sul buco che appare però fragile, dato che Gemes avverte di un cambiamento nella struttura di mercato del settore.

Gemes delizia l’audience con questa perla tutta da soppesare:

«È evidente come gli standard di concessione nel mercato del finanziamento a leva siano i più bassi di sempre. Il credito privato è stato molto aggressivo nell’offrire prestiti “covenant-lite” e una percentuale elevata di prestiti con struttura Payment-in-Kind, ovvero pagamenti in natura, aumentando così il rischio complessivo.»

L’esplosione di First Brands non sarà l’ultima

Da insider del settore arriva il conforto: i guai come quelli di First Brands – nome tanto fiabesco quanto tragicamente reale – stanno diventando sempre più insidiosi da individuare, nonostante una due diligence accanita e spesso affiancata da investigatori privati. Avvistamenti di insolvenze e recuperi assai deludenti si moltiplicherebbero, mentre ben pochi dettagli trapelano perché – sorpresa! – parliamo di mercati privati, per definizione opachi.

Gemes si sbilancia senza paura di essere screditato:

«Questa non è la canarino della miniera di carbone, non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima»

Ovviamente, il rischio sistemico derivante da questa implosione è considerato basso, grazie a regole bancarie più rigide post crisi finanziaria globale del 2008 e a protezioni più sofisticate nei CLO (Collateralized Loan Obligations). Eppure, la narrativa torna irresistibilmente a quelle vecchie glorie di crisi storiche, paragonando lo scenario a quello di Greensill Capital nel 2021, con un cocktail letale di ingegneria finanziaria complessa, debiti rischiosi e asset legati ai crediti commerciali.

Una nota firma svizzera nel campo del contenzioso, Lalive, azzarda paragoni tra questo modello di finanziamento misto – credito privato e finanza della catena di fornitura – e quello di Greensill. Evidenzia come la natura off-balance della finanza della catena di fornitura possa mascherare debolezze nascoste e aumentare i rischi di insolvenza. Inoltre, mette a confronto il pantano di UBS con l’esposizione da 10 miliardi di dollari di Credit Suisse ai fondi legati a Greensill.

Lalive scrive, con la sobrietà che lo contraddistingue:

«Le somiglianze strutturali tra i due casi suggeriscono che potremmo non trovarci davanti a un semplice evento di credito.»

Perché, si sa, nei mercati pubblici puoi sempre “sbirciare”. Con un click ti mostri cosa si muove, quanto c’è di liquidità, quali volumi si girano, insomma: puoi stressare tutto finché vuoi. Nei mercati privati? Benvenuti nel buio assoluto. Patrick Ghali, co-fondatore e managing partner di Sussex Partners, non prende mezzi termini con CNBC:

«Ci sono rischi veri e propri.»

Non poteva mancare la comparazione shock da parte del celebre venditore allo scoperto, Jim Chanos, che in un’intervista al Financial Times ha liquidato il credito privato come un ulteriore “strato” tra chi presta e chi prende in prestito, rileggendolo con gli occhiali delle mutande subprime causa della crisi del 2008. Da parte sua, Ghali commenta con pragmatismo e un pizzico di cinismo:

«Molti ormai non ricordano il 2008, distano quasi vent’anni, ma le lezioni che ci ha insegnato sono imprescindibili. Capisco il motivo dell’eliminazione delle banche come intermediarie, capisco l’esistenza stessa di questo mercato. Sono però molto preoccupato e invito a fare i compiti a casa. C’è una quantità di denaro enorme, e ancora crescente, che si sta riversando in questo spazio, ed è una prospettiva che fa accapponare la pelle».

Non ci stavano mai leggendo abbastanza: mercoledì hanno pure rivelato che la loro divisione Apex Credit Partners, quella che si occupa di CLO (collateralized loan obligations) composti da prestiti ampiamente distribuiti, ha un’esposizione più limitata di 48 milioni di dollari, ovvero circa l’1% degli asset nel CLO gestito da Apex. Che generosità.

Nel frattempo, il mega hedge fund Millennium, con i suoi faraonici 79 miliardi in gestione, ha preso una batosta da 100 milioni di dollari derivante dai debiti di First Brands. Ovviamente, al loro portavoce è stato chiesto di parlare, ma lui ha scelto il silenzio più eloquente.

Credit crunch e prestiti generosi: la ricetta del disastro

First Brands, nata nel 2014 e raccolta sotto le sapienti mani dell’investitore singaporiano Patrick James, ha esplorato la crescita rapida come se fosse un caffè doppio: una sfilza di acquisizioni di altre aziende di componentistica auto negli USA – perché perché mettere tutte le uova in un solo paniere è roba da sprovveduti.

Tutto questo fuochino è stato alimentato da un cocktail di debito fuori bilancio, giganti prestiti bancari ben distribuiti, e una varietà di altre strutture di prestito “non convenzionali” da far invidia a un libro di finanza creativa. Gran parte di questo indebitamento era supportato da crediti insoluti, factoring e altre fantasiose metodologie di finanziamento della supply chain, spesso con veicoli speciali e CLO come spauracchio.

La società, che produceva candele, tergicristalli, filtri e pastiglie dei freni – un assortimento davvero utile per chi ha ancora un’auto che funziona – ha dichiarato bancarotta secondo il Chapter 11 il 28 settembre. Un tentativo di rifinanziamento fallito ha attirato l’attenzione sui suoi meccanismi debitori, che si aggirerebbero intorno ai 10 miliardi di dollari, una cifra da capogiro, per usare un eufemismo.

Questa tempesta di debiti sembra avere origine soprattutto dai finanziamenti fuori bilancio legati alla catena di fornitura, più presenti nel mercato ampiamente distribuito dei prestiti bancari che non nell’ambito del private credit diretto. Un chiaro segnale che anche il settore più elogiato dell’economia reale sta iniziando a puzzare.

Non dimentichiamo che il mercato dei prestiti privati ha conosciuto un boom negli ultimi anni, diventando una fonte sempre più popolare di finanziamento per l’economia reale. Peccato che dietro l’apparente sostegno si nascondano trappole, debiti nascosti e bilanci che si comportano come funamboli sul filo del rasoio. Un vero spettacolo da non perdere, se amate le tragedie finanziarie.

Orlando Gemes, socio fondatore e direttore degli investimenti di Fourier Asset Management, non si scompone:

«Il livello dei mercati azionari e la stretta degli spread creditizi possono aver creato una sorta di illusione ottica per cui tutto nel mondo appare in una condizione migliore.»

In parole povere, si affanna a giustificare un mercato del credito privato che, tutto sommato, avrebbe fatto un “buon lavoro” nello spostare il credito fuori dai bilanci bancari verso strutture di capitale più lunghe e, presumibilmente, più adatte. Ma attenzione, non è tutto oro quel che luccica: i fondi di credito privato si sarebbero esposti “solo in modo limitato” sull’enorme debito di quasi 10 miliardi di dollari di questa fantomatica società di componenti auto. Una pezza sul buco che appare però fragile, dato che Gemes avverte di un cambiamento nella struttura di mercato del settore.

Gemes delizia l’audience con questa perla tutta da soppesare:

«È evidente come gli standard di concessione nel mercato del finanziamento a leva siano i più bassi di sempre. Il credito privato è stato molto aggressivo nell’offrire prestiti “covenant-lite” e una percentuale elevata di prestiti con struttura Payment-in-Kind, ovvero pagamenti in natura, aumentando così il rischio complessivo.»

L’esplosione di First Brands non sarà l’ultima

Da insider del settore arriva il conforto: i guai come quelli di First Brands – nome tanto fiabesco quanto tragicamente reale – stanno diventando sempre più insidiosi da individuare, nonostante una due diligence accanita e spesso affiancata da investigatori privati. Avvistamenti di insolvenze e recuperi assai deludenti si moltiplicherebbero, mentre ben pochi dettagli trapelano perché – sorpresa! – parliamo di mercati privati, per definizione opachi.

Gemes si sbilancia senza paura di essere screditato:

«Questa non è la canarino della miniera di carbone, non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima»

Ovviamente, il rischio sistemico derivante da questa implosione è considerato basso, grazie a regole bancarie più rigide post crisi finanziaria globale del 2008 e a protezioni più sofisticate nei CLO (Collateralized Loan Obligations). Eppure, la narrativa torna irresistibilmente a quelle vecchie glorie di crisi storiche, paragonando lo scenario a quello di Greensill Capital nel 2021, con un cocktail letale di ingegneria finanziaria complessa, debiti rischiosi e asset legati ai crediti commerciali.

Una nota firma svizzera nel campo del contenzioso, Lalive, azzarda paragoni tra questo modello di finanziamento misto – credito privato e finanza della catena di fornitura – e quello di Greensill. Evidenzia come la natura off-balance della finanza della catena di fornitura possa mascherare debolezze nascoste e aumentare i rischi di insolvenza. Inoltre, mette a confronto il pantano di UBS con l’esposizione da 10 miliardi di dollari di Credit Suisse ai fondi legati a Greensill.

Lalive scrive, con la sobrietà che lo contraddistingue:

«Le somiglianze strutturali tra i due casi suggeriscono che potremmo non trovarci davanti a un semplice evento di credito.»

Perché, si sa, nei mercati pubblici puoi sempre “sbirciare”. Con un click ti mostri cosa si muove, quanto c’è di liquidità, quali volumi si girano, insomma: puoi stressare tutto finché vuoi. Nei mercati privati? Benvenuti nel buio assoluto. Patrick Ghali, co-fondatore e managing partner di Sussex Partners, non prende mezzi termini con CNBC:

«Ci sono rischi veri e propri.»

Non poteva mancare la comparazione shock da parte del celebre venditore allo scoperto, Jim Chanos, che in un’intervista al Financial Times ha liquidato il credito privato come un ulteriore “strato” tra chi presta e chi prende in prestito, rileggendolo con gli occhiali delle mutande subprime causa della crisi del 2008. Da parte sua, Ghali commenta con pragmatismo e un pizzico di cinismo:

«Molti ormai non ricordano il 2008, distano quasi vent’anni, ma le lezioni che ci ha insegnato sono imprescindibili. Capisco il motivo dell’eliminazione delle banche come intermediarie, capisco l’esistenza stessa di questo mercato. Sono però molto preoccupato e invito a fare i compiti a casa. C’è una quantità di denaro enorme, e ancora crescente, che si sta riversando in questo spazio, ed è una prospettiva che fa accapponare la pelle».

Jefferies ha confessato:

“Non abbiamo ancora ricevuto alcun risultato di questa indagine. Intendiamo usare ogni mezzo a disposizione per difendere gli interessi e far valere i diritti di Point Bonita e dei suoi investitori.”

Non ci stavano mai leggendo abbastanza: mercoledì hanno pure rivelato che la loro divisione Apex Credit Partners, quella che si occupa di CLO (collateralized loan obligations) composti da prestiti ampiamente distribuiti, ha un’esposizione più limitata di 48 milioni di dollari, ovvero circa l’1% degli asset nel CLO gestito da Apex. Che generosità.

Nel frattempo, il mega hedge fund Millennium, con i suoi faraonici 79 miliardi in gestione, ha preso una batosta da 100 milioni di dollari derivante dai debiti di First Brands. Ovviamente, al loro portavoce è stato chiesto di parlare, ma lui ha scelto il silenzio più eloquente.

Credit crunch e prestiti generosi: la ricetta del disastro

First Brands, nata nel 2014 e raccolta sotto le sapienti mani dell’investitore singaporiano Patrick James, ha esplorato la crescita rapida come se fosse un caffè doppio: una sfilza di acquisizioni di altre aziende di componentistica auto negli USA – perché perché mettere tutte le uova in un solo paniere è roba da sprovveduti.

Tutto questo fuochino è stato alimentato da un cocktail di debito fuori bilancio, giganti prestiti bancari ben distribuiti, e una varietà di altre strutture di prestito “non convenzionali” da far invidia a un libro di finanza creativa. Gran parte di questo indebitamento era supportato da crediti insoluti, factoring e altre fantasiose metodologie di finanziamento della supply chain, spesso con veicoli speciali e CLO come spauracchio.

La società, che produceva candele, tergicristalli, filtri e pastiglie dei freni – un assortimento davvero utile per chi ha ancora un’auto che funziona – ha dichiarato bancarotta secondo il Chapter 11 il 28 settembre. Un tentativo di rifinanziamento fallito ha attirato l’attenzione sui suoi meccanismi debitori, che si aggirerebbero intorno ai 10 miliardi di dollari, una cifra da capogiro, per usare un eufemismo.

Questa tempesta di debiti sembra avere origine soprattutto dai finanziamenti fuori bilancio legati alla catena di fornitura, più presenti nel mercato ampiamente distribuito dei prestiti bancari che non nell’ambito del private credit diretto. Un chiaro segnale che anche il settore più elogiato dell’economia reale sta iniziando a puzzare.

Non dimentichiamo che il mercato dei prestiti privati ha conosciuto un boom negli ultimi anni, diventando una fonte sempre più popolare di finanziamento per l’economia reale. Peccato che dietro l’apparente sostegno si nascondano trappole, debiti nascosti e bilanci che si comportano come funamboli sul filo del rasoio. Un vero spettacolo da non perdere, se amate le tragedie finanziarie.

Orlando Gemes, socio fondatore e direttore degli investimenti di Fourier Asset Management, non si scompone:

«Il livello dei mercati azionari e la stretta degli spread creditizi possono aver creato una sorta di illusione ottica per cui tutto nel mondo appare in una condizione migliore.»

In parole povere, si affanna a giustificare un mercato del credito privato che, tutto sommato, avrebbe fatto un “buon lavoro” nello spostare il credito fuori dai bilanci bancari verso strutture di capitale più lunghe e, presumibilmente, più adatte. Ma attenzione, non è tutto oro quel che luccica: i fondi di credito privato si sarebbero esposti “solo in modo limitato” sull’enorme debito di quasi 10 miliardi di dollari di questa fantomatica società di componenti auto. Una pezza sul buco che appare però fragile, dato che Gemes avverte di un cambiamento nella struttura di mercato del settore.

Gemes delizia l’audience con questa perla tutta da soppesare:

«È evidente come gli standard di concessione nel mercato del finanziamento a leva siano i più bassi di sempre. Il credito privato è stato molto aggressivo nell’offrire prestiti “covenant-lite” e una percentuale elevata di prestiti con struttura Payment-in-Kind, ovvero pagamenti in natura, aumentando così il rischio complessivo.»

L’esplosione di First Brands non sarà l’ultima

Da insider del settore arriva il conforto: i guai come quelli di First Brands – nome tanto fiabesco quanto tragicamente reale – stanno diventando sempre più insidiosi da individuare, nonostante una due diligence accanita e spesso affiancata da investigatori privati. Avvistamenti di insolvenze e recuperi assai deludenti si moltiplicherebbero, mentre ben pochi dettagli trapelano perché – sorpresa! – parliamo di mercati privati, per definizione opachi.

Gemes si sbilancia senza paura di essere screditato:

«Questa non è la canarino della miniera di carbone, non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima»

Ovviamente, il rischio sistemico derivante da questa implosione è considerato basso, grazie a regole bancarie più rigide post crisi finanziaria globale del 2008 e a protezioni più sofisticate nei CLO (Collateralized Loan Obligations). Eppure, la narrativa torna irresistibilmente a quelle vecchie glorie di crisi storiche, paragonando lo scenario a quello di Greensill Capital nel 2021, con un cocktail letale di ingegneria finanziaria complessa, debiti rischiosi e asset legati ai crediti commerciali.

Una nota firma svizzera nel campo del contenzioso, Lalive, azzarda paragoni tra questo modello di finanziamento misto – credito privato e finanza della catena di fornitura – e quello di Greensill. Evidenzia come la natura off-balance della finanza della catena di fornitura possa mascherare debolezze nascoste e aumentare i rischi di insolvenza. Inoltre, mette a confronto il pantano di UBS con l’esposizione da 10 miliardi di dollari di Credit Suisse ai fondi legati a Greensill.

Lalive scrive, con la sobrietà che lo contraddistingue:

«Le somiglianze strutturali tra i due casi suggeriscono che potremmo non trovarci davanti a un semplice evento di credito.»

Perché, si sa, nei mercati pubblici puoi sempre “sbirciare”. Con un click ti mostri cosa si muove, quanto c’è di liquidità, quali volumi si girano, insomma: puoi stressare tutto finché vuoi. Nei mercati privati? Benvenuti nel buio assoluto. Patrick Ghali, co-fondatore e managing partner di Sussex Partners, non prende mezzi termini con CNBC:

«Ci sono rischi veri e propri.»

Non poteva mancare la comparazione shock da parte del celebre venditore allo scoperto, Jim Chanos, che in un’intervista al Financial Times ha liquidato il credito privato come un ulteriore “strato” tra chi presta e chi prende in prestito, rileggendolo con gli occhiali delle mutande subprime causa della crisi del 2008. Da parte sua, Ghali commenta con pragmatismo e un pizzico di cinismo:

«Molti ormai non ricordano il 2008, distano quasi vent’anni, ma le lezioni che ci ha insegnato sono imprescindibili. Capisco il motivo dell’eliminazione delle banche come intermediarie, capisco l’esistenza stessa di questo mercato. Sono però molto preoccupato e invito a fare i compiti a casa. C’è una quantità di denaro enorme, e ancora crescente, che si sta riversando in questo spazio, ed è una prospettiva che fa accapponare la pelle».

Il tracollo della società americana di componenti auto First Brands Group sta causando un terremoto nel settore bancario su entrambi i lati dell’Atlantico. Una caduta rapida e spettacolare, che sta sbrogliando una matassa di contratti di debito sempre più intricati festeggiati da un’ampia gamma di creditori e fondi d’investimento sparsi per il globo. Un vero capolavoro che mette in luce i rischi insiti in quelle stutture di finanziamento “aggressive” che tanto piacciono al mondo del private credit.

Il colosso Jefferies ha annunciato mercoledì che la sua divisione Leucadia Asset Management si ritrova con un’esposizione da ben 715 milioni di dollari nei confronti della sfortunata azienda dell’Ohio, attraverso il suo Point Bonita Capital Fund, specializzato in investimenti nei crediti da fatturazione. Nel frattempo, UBS O’Connor — l’unità di gestione patrimoniale svizzera che si occupa di mercati privati, hedge fund e materie prime — mostra una posizione di esposizione globale oltre i 500 milioni di dollari. Solo il UBS Working Capital Finance Opportunistic Fund rischia grosso, con una fetta del 30% investita esclusivamente in factoring di fatture.

Non contenti, i fondi di UBS detengono anche posizioni nella fintech specializzata in capitale circolante Raistone, i cui guadagni derivano quasi esclusivamente da First Brands. Spargendo ulteriore pepe sulla vicenda, sembra che O’Connor detenga persino una quota azionaria in questo gioiellino, secondo quanto riportato dal Financial Times. Insomma, un vero “coinvolgimento” totale, perché a nessuno piace prendersi un rischio a metà.

UBS ha dichiarato in una nota che:

“Questo evento coinvolge numerosi provider di private credit e di capitale circolante in tutta l’industria. In questa situazione altamente fluida, stiamo lavorando per determinare l’impatto potenziale sulle prestazioni di un piccolo numero dei nostri fondi coinvolti, concentrandoci sulla protezione degli interessi dei nostri clienti.”

Nel frattempo Jefferies continua a tessere la sua tela, interloquendo con i consulenti di First Brands nella vana speranza di capire l’entità del danno per Point Bonita. Questa strategia – che gestisce un patrimonio vicino ai 3 miliardi di dollari – si trascina un’esposizione nei confronti di First Brands fin dal 2019, mica pizza e fichi.

Quei 715 milioni non sono una cifra buttata lì dal nulla: sono investiti in crediti verso giganti quali Walmart, Autozone e NAPA. Il mistero si fa fitto: durante le pratiche fallimentari, First Brands ha segnalato che i suoi consulenti speciali stanno indagando se quelle fatture siano state fantasmagoricamente cedute a terzi più di una volta. Tradotto: possibile che si siano fatte le nozze con i fichi secchi, incassando più di una volta lo stesso credito.

Jefferies ha confessato:

“Non abbiamo ancora ricevuto alcun risultato di questa indagine. Intendiamo usare ogni mezzo a disposizione per difendere gli interessi e far valere i diritti di Point Bonita e dei suoi investitori.”

Non ci stavano mai leggendo abbastanza: mercoledì hanno pure rivelato che la loro divisione Apex Credit Partners, quella che si occupa di CLO (collateralized loan obligations) composti da prestiti ampiamente distribuiti, ha un’esposizione più limitata di 48 milioni di dollari, ovvero circa l’1% degli asset nel CLO gestito da Apex. Che generosità.

Nel frattempo, il mega hedge fund Millennium, con i suoi faraonici 79 miliardi in gestione, ha preso una batosta da 100 milioni di dollari derivante dai debiti di First Brands. Ovviamente, al loro portavoce è stato chiesto di parlare, ma lui ha scelto il silenzio più eloquente.

Credit crunch e prestiti generosi: la ricetta del disastro

First Brands, nata nel 2014 e raccolta sotto le sapienti mani dell’investitore singaporiano Patrick James, ha esplorato la crescita rapida come se fosse un caffè doppio: una sfilza di acquisizioni di altre aziende di componentistica auto negli USA – perché perché mettere tutte le uova in un solo paniere è roba da sprovveduti.

Tutto questo fuochino è stato alimentato da un cocktail di debito fuori bilancio, giganti prestiti bancari ben distribuiti, e una varietà di altre strutture di prestito “non convenzionali” da far invidia a un libro di finanza creativa. Gran parte di questo indebitamento era supportato da crediti insoluti, factoring e altre fantasiose metodologie di finanziamento della supply chain, spesso con veicoli speciali e CLO come spauracchio.

La società, che produceva candele, tergicristalli, filtri e pastiglie dei freni – un assortimento davvero utile per chi ha ancora un’auto che funziona – ha dichiarato bancarotta secondo il Chapter 11 il 28 settembre. Un tentativo di rifinanziamento fallito ha attirato l’attenzione sui suoi meccanismi debitori, che si aggirerebbero intorno ai 10 miliardi di dollari, una cifra da capogiro, per usare un eufemismo.

Questa tempesta di debiti sembra avere origine soprattutto dai finanziamenti fuori bilancio legati alla catena di fornitura, più presenti nel mercato ampiamente distribuito dei prestiti bancari che non nell’ambito del private credit diretto. Un chiaro segnale che anche il settore più elogiato dell’economia reale sta iniziando a puzzare.

Non dimentichiamo che il mercato dei prestiti privati ha conosciuto un boom negli ultimi anni, diventando una fonte sempre più popolare di finanziamento per l’economia reale. Peccato che dietro l’apparente sostegno si nascondano trappole, debiti nascosti e bilanci che si comportano come funamboli sul filo del rasoio. Un vero spettacolo da non perdere, se amate le tragedie finanziarie.

Orlando Gemes, socio fondatore e direttore degli investimenti di Fourier Asset Management, non si scompone:

«Il livello dei mercati azionari e la stretta degli spread creditizi possono aver creato una sorta di illusione ottica per cui tutto nel mondo appare in una condizione migliore.»

In parole povere, si affanna a giustificare un mercato del credito privato che, tutto sommato, avrebbe fatto un “buon lavoro” nello spostare il credito fuori dai bilanci bancari verso strutture di capitale più lunghe e, presumibilmente, più adatte. Ma attenzione, non è tutto oro quel che luccica: i fondi di credito privato si sarebbero esposti “solo in modo limitato” sull’enorme debito di quasi 10 miliardi di dollari di questa fantomatica società di componenti auto. Una pezza sul buco che appare però fragile, dato che Gemes avverte di un cambiamento nella struttura di mercato del settore.

Gemes delizia l’audience con questa perla tutta da soppesare:

«È evidente come gli standard di concessione nel mercato del finanziamento a leva siano i più bassi di sempre. Il credito privato è stato molto aggressivo nell’offrire prestiti “covenant-lite” e una percentuale elevata di prestiti con struttura Payment-in-Kind, ovvero pagamenti in natura, aumentando così il rischio complessivo.»

L’esplosione di First Brands non sarà l’ultima

Da insider del settore arriva il conforto: i guai come quelli di First Brands – nome tanto fiabesco quanto tragicamente reale – stanno diventando sempre più insidiosi da individuare, nonostante una due diligence accanita e spesso affiancata da investigatori privati. Avvistamenti di insolvenze e recuperi assai deludenti si moltiplicherebbero, mentre ben pochi dettagli trapelano perché – sorpresa! – parliamo di mercati privati, per definizione opachi.

Gemes si sbilancia senza paura di essere screditato:

«Questa non è la canarino della miniera di carbone, non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima»

Ovviamente, il rischio sistemico derivante da questa implosione è considerato basso, grazie a regole bancarie più rigide post crisi finanziaria globale del 2008 e a protezioni più sofisticate nei CLO (Collateralized Loan Obligations). Eppure, la narrativa torna irresistibilmente a quelle vecchie glorie di crisi storiche, paragonando lo scenario a quello di Greensill Capital nel 2021, con un cocktail letale di ingegneria finanziaria complessa, debiti rischiosi e asset legati ai crediti commerciali.

Una nota firma svizzera nel campo del contenzioso, Lalive, azzarda paragoni tra questo modello di finanziamento misto – credito privato e finanza della catena di fornitura – e quello di Greensill. Evidenzia come la natura off-balance della finanza della catena di fornitura possa mascherare debolezze nascoste e aumentare i rischi di insolvenza. Inoltre, mette a confronto il pantano di UBS con l’esposizione da 10 miliardi di dollari di Credit Suisse ai fondi legati a Greensill.

Lalive scrive, con la sobrietà che lo contraddistingue:

«Le somiglianze strutturali tra i due casi suggeriscono che potremmo non trovarci davanti a un semplice evento di credito.»

Perché, si sa, nei mercati pubblici puoi sempre “sbirciare”. Con un click ti mostri cosa si muove, quanto c’è di liquidità, quali volumi si girano, insomma: puoi stressare tutto finché vuoi. Nei mercati privati? Benvenuti nel buio assoluto. Patrick Ghali, co-fondatore e managing partner di Sussex Partners, non prende mezzi termini con CNBC:

«Ci sono rischi veri e propri.»

Non poteva mancare la comparazione shock da parte del celebre venditore allo scoperto, Jim Chanos, che in un’intervista al Financial Times ha liquidato il credito privato come un ulteriore “strato” tra chi presta e chi prende in prestito, rileggendolo con gli occhiali delle mutande subprime causa della crisi del 2008. Da parte sua, Ghali commenta con pragmatismo e un pizzico di cinismo:

«Molti ormai non ricordano il 2008, distano quasi vent’anni, ma le lezioni che ci ha insegnato sono imprescindibili. Capisco il motivo dell’eliminazione delle banche come intermediarie, capisco l’esistenza stessa di questo mercato. Sono però molto preoccupato e invito a fare i compiti a casa. C’è una quantità di denaro enorme, e ancora crescente, che si sta riversando in questo spazio, ed è una prospettiva che fa accapponare la pelle».

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