In Italia vivono più di 3,5 milioni di persone affette da disturbi psichiatrici e ben 2,5 milioni che si confrontano quotidianamente con malattie neurologiche. Numeri da brivido che dovrebbero far riflettere, soprattutto se si considera la totale confusione con cui si gestiscono lacune e disuguaglianze nell’accesso alle cure. Causa principale? Ovviamente l’immancabile mix di età, luogo di residenza, ostacoli culturali e status socioeconomico. Una commedia che si è messa in scena durante l’incontro “Brain Health Inequalities – Idee e strategie per non lasciare indietro nessuno”, patrocinato da Lundbeck Italia e Triennale Milano, incastonato nella 24esima Esposizione internazionale Inequalities. Tra chiacchiere di esperti, burocrati e accademici di vaglia, si è cercato di illuminare questo teatrino d’inequità, puntando il dito sulle disuguaglianze di accesso alle cure e teorizzando strategie per una sanità un po’ meno ingiusta e un po’ più inclusiva, il tutto detta con l’ambizioso obiettivo di conservare la salute del cervello di tutti per una vita lungo-lunghissima e, si spera, dignitosa.
Emanuele Monti, presidente della Commissione Welfare della Regione Lombardia, ci regala un autentico momento di luce: “Regione Lombardia sta lavorando con grande impegno per tradurre le risorse del Pnrr in servizi concreti per i cittadini”. Tradotto: tanto rumore per nulla? Non proprio. Monti ci racconta che la sanità territoriale è la stella polare di questo spettacolo, con Case e Ospedali di Comunità che, complice lo sviluppo della telemedicina, dovrebbero finalmente avvicinare le cure alla gente comune e miracolosamente sradicare le differenze di accesso. L’attenzione? Ovviamente alle malattie neurologiche e psichiatriche, il cui trattamento multidisciplinare si propone di creare un ponte degno tra ospedali e territorio.
Monti insiste poi sulla digitalizzazione, questa panacea moderna che promette di condividere dati, snellire percorsi clinici e garantire l’agognata equità. E come ciliegina sulla torta, si punta tutto sulla formazione degli operatori e sull’integrazione fra servizi sanitari e sociali. Meno male, perché promuovere una salute del cervello equa, diffusa e sostenibile non sembra affatto una passeggiata, ma con questi ingredienti sembra quasi possibile.
Francesco Longo, professore associato di Public and Health Care Management alla Università Bocconi, ci regala la sua illuminazione sul tema liste d’attesa, quel tormentone preferito da tutti i dibattiti. Ecco la sua chicca: “Il problema non è la lista d’attesa ma la metrica con cui misuriamo il funzionamento del sistema sanitario”. Dunque, mentre tutti gridano al mostro delle file interminabili, la realtà è un po’ più sottile e un po’ meno spettacolare. Le liste d’attesa, infatti, riguardano meno della metà delle prestazioni prescritte, ma – ironia della sorte – rimangono il parametro principe su cui misurare l’efficienza. Come se la quantità di ricette fosse una fotografia onesta dell’equità.
Secondo Longo, la ricetta medica più che rivelare la giustizia del sistema la maschera abilmente, nascondendo le vere disuguaglianze. Per fare un esempio, esistono territori con un consumo di prestazioni che sfiora livelli astronomici, mentre altrove la gente aspetta come se fosse il giorno del giudizio. Un quadro suggestivo che però necessiterebbe di un’analisi più profonda, ma si sa, qui siamo più bravi a parlare che a risolvere.
Le realtà nascoste tra liste d’attesa e disuguaglianze
Non è una sorpresa che negli angoli più dimenticati del Paese la sanità sia un miraggio. Le differenze territoriali sono un classico intramontabile: nord e sud sembrano due universi paralleli dove le liste d’attesa assumono forme e dimensioni diverse. Se poi si aggiunge la zavorra di barriere culturali e di un sistema che tende a privilegiare chi è più informato o ha qualche aggancio, il risultato è un cocktail esplosivo di ingiustizie mascherate da normali complicazioni burocratiche.
Si parlava anche di diagnosi precoce, un concetto che dovrebbe essere ovvio ma che in Italia sembra un lusso da pochi privilegiati. E senza una diagnosi tempestiva, addio percorsi assistenziali strutturati, senza i quali, soprattutto nei disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza, il danno è assicurato e – ironia delle ironie – la cronicità diventa l’amica più fedele di molti pazienti.
Oltre ai casi comuni, si è spento uno sguardo pietoso sulle malattie neurologiche rare, quegli orfani del sistema che, nonostante la loro rarità, meritano più attenzione delle sterile chiacchiere che spesso li avvolgono. Ma soprattutto si è rimarcata l’importanza di accettare la cronicità, perché oltre al romanticismo della guarigione totale, il nostro sistema sanitario ha bisogno di riconoscere la realtà quotidiana di milioni di persone che convivono con patologie croniche senza ricevere servizi adeguati.
In definitiva, gli esperti lanciano l’ennesimo appello a rendere la sanità più equa e inclusiva: parole che risuonano bene nei salotti più benevoli ma che faticano a tradursi in azioni concrete. Perché, in fondo, quando si parla di salute mentale e neurologica, il divario tra parole e fatti resta una voragine che solo un miracolo – o una vera rivoluzione – potrà colmare.
In un mondo dove salute e benessere dovrebbero essere diritti fondanti, emerge invece una realtà che sembra più un gioco al massacro geografico e sociale. La disparità negli accessi alle cure sanitarie non è una questione di periferia contro centro, ma una danza macabra di ingiustizie interne al sistema stesso. Non parliamo nemmeno più di guarigione definitiva – dimentichiamo per un attimo il sogno di tornare all’infanzia senza malattie –, parliamo di convivenza con patologie croniche che accompagnano i pazienti per decenni, una specie di storica compagnia forzata.
Chi pensa di risolvere tutto con un’unica prestazione medica è evidentemente ancora incastrato nella favola della medicina taumaturgica. La vera discriminante, infatti, non è solo quanto denaro si abbia a disposizione, ma la capacità – ammesso che sia possibile – di metabolizzare quell’eternità chiamata cronicità. Chi accetta di buon grado questo “per sempre” si attiene alle terapie, mentre chi fa l’indifferente preferisce vivere nell’illusione, scappando da controlli e visite per dimenticare la diagnosi come fosse un fastidioso promemoria.
Dunque, se davvero vogliamo che la disuguaglianza nella salute diminuisca, è ora di cambiare il disco rotto su cui gira il nostro linguaggio medico-sociale: si tratta di supportare la cosiddetta “aderenza terapeutica”, vale a dire la volontà di stringere un patto a vita con le cure, senza illusioni di scampo rapido.
Bernardo Dell’Osso, professore ordinario di Psichiatria presso l’Università Statale di Milano e direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco, ci ricorda che la diagnosi precoce in psichiatria non è un optional, ma una necessità soprattutto nei più giovani, perché sì, i segnali si manifestano presto, molto prima di quando si pensa.
Bernardo Dell’Osso said:
“A cinque o sei anni si possono già notare i primi segnali di autismo o ADHD, mentre intorno ai 13-14 anni emergono i sintomi iniziali di disturbi della personalità, primi episodi di depressione, ansia, abuso di sostanze e segni prodromici di disturbi psicotici. Tra i 16 e i 17 anni, l’adolescente può entrare in fasi particolarmente delicate con esordi psichiatrici più complessi. Pertanto, è cruciale che le famiglie vengano sensibilizzate e supportate: molto spesso sono i genitori, gli insegnanti o gli psicologi scolastici i primi a percepire segnali di disagio e a indirizzare i giovani verso i servizi adeguati.”
Prevenire, si sa, dovrebbe essere la parola d’ordine. Peccato che qui la prevenzione significhi impattare su una lunga lista di fattori di rischio, che vanno dai geni, ai traumi, ai conflitti familiari fino ai bullismi e alle pressioni mediatiche — insomma, un bel cocktail esplosivo che non si sistema con una bella parola magica.
Bernardo Dell’Osso aggiunge senza filtri:
“Non esiste nessun gene unico che spieghi i disturbi psichici. La vera differenza la fa l’interazione tra genetica e ambiente, un cocktail di fattori stressanti, ripetuti e più o meno subdoli. Ogni disturbo, dall’autismo ai problemi di dipendenza, fino ai disturbi alimentari, necessita di un percorso personalizzato. Per assicurare equità di accesso, bisogna lavorare non solo all’interno degli ospedali ma anche—andiamo a scoprire l’acqua calda—sul territorio: consultori, centri psicosociali, case di comunità, ambulatori pediatrici e medici di base. E ovviamente, bisogna potenziare strumenti di supporto virtuali e a distanza, specialmente nelle zone più dimenticate. Solo così potremo, forse, intercettare prima i bisogni degli adolescenti e costruire strade di cura più efficaci.”
Restando in tema di disparità, la neurologia italiana sembra un campo minato: diagnosi precoci, accesso alle Stroke Unit o a farmaci innovativi per sclerosi multipla, Parkinson o Alzheimer sono ancora delle lotterie in base alla regione, provincia e alla salute finanziaria del paziente. È un po’ il festival dell’incertezza, dove la fortuna fa più che il diritto.
Alessandro Padovani, presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN), non è certo tenero nell’esporre le crepe del sistema:
“A questa disomogeneità si sommano le difficoltà nel riconoscere tempestivamente le malattie neurologiche in persone già affette da altre patologie somatiche o psichiatriche. Il Decreto Ministeriale 77 del 2022 ha gettato una cornice teorica importante per l’assistenza territoriale, ma tradurre queste belle parole in fatti concreti resta una sfida. Sono necessarie reti integrate che uniscano ospedale e territorio, garantendo continuità di cura, soprattutto per i pazienti cronici e fragili. Serve un’alleanza vera, non un’altra scatola vuota di buone intenzioni.”
Sì, perché da decenni applichiamo riforme fatasmagoriche e poi, sorpresa, tutto resta immutato. La politica del “facciamo rete” spesso si traduce in parlare al bar del circolo sociale, mentre i pazienti contano le ore d’attesa e stringono tra le mani prescrizioni spesso incomprensibili.



