Non è un segreto che in Italia circa 600mila persone nuotino nel meraviglioso mare della malattia di Alzheimer, e ovviamente ci aspettiamo che questo triste oceano si allarghi perché, indovinate un po’? La popolazione invecchia. Sì, quella cosa inevitabile che dimentichiamo finché non ci tocca da vicino. Questa malattia avanza a tappe, peggiorando con lentezza e costanza, come un ospite indesiderato che si prende casa nel vostro cervello rubandovi indipendenza e dignità. Ovviamente, se non la pizzicate abbastanza in tempo, il declino sarà rapido e spietato, in meno di un anno si passa da “qualche smemorato” a uno che non ricorda più chi è.
Ora, la miracolosa Commissione Europea, nella sua infinita saggezza, ha dato il via libera all’anticorpo monoclonale donanemab prodotto da Lilly. Questo intruglio chimico è autorizzato per trattare la fase iniziale della malattia in un gruppetto molto speciale di pazienti. Secondo Alessandro Padovani, luminare della neurologia bresciana e presidente della Società Italiana di Neurologia, questo farmaco segna “un cambiamento epocale” nella gestione della malattia. Finalmente, abbandoniamo le solite terapie da quattro soldi che tamponano i sintomi, per abbracciare un trattamento che – ojos al dato – rallenta davvero il declino cognitivo e funzionale. Una svolta, dite?
La cura è indicata per adulti con Alzheimer sintomatico in fase iniziale: cioè chi ha un declino cognitivo lieve o una demenza lieve con conferma della patologia amiloide e, udite udite, con uno status genetico ben preciso, ovvero eterozigoti o non portatori di apolipoproteina E (ApoE4). Marco Bozzali, professore associato di neurologia a Torino e presidente dell’associazione per le demenze SinDem, ci mette un po’ di pepe: “Per la prima volta abbiamo una terapia mensile che va a colpire di petto le placche amiloidi, con prove scientifiche che dimostrano una riduzione netta delle amiloidi al termine del ciclo, rallentando così il cammino verso la demenza vera.” Peccato che per anni, nella migliore tradizione medica, questa strada fosse considerata un vicolo cieco.
Per chi non ha ancora fatto amicizia con la terminologia, l’amiloide è una proteina normale prodotta dal nostro corpo che però, quando si mette a fare il cattivo ragazzo, si aggrega in placche che intasano il cervello. Questo caos molecolare è associato a problemi di memoria e a una generale confusione che si acuisce con l’Alzheimer. Il donanemab, tanto osannato, agisce eliminando questa spazzatura, tentando di fermare quel declino che trasforma persone autonome in formidabili dimenticanti: da quelli che sbagliano appuntamento a chi non riesce più a gestire la spesa o a mettere il frigorifero in modalità rustica.
Insomma, in teoria, questo farmaco dovrebbe aiutare a preservare un briciolo di autonomia nel quotidiano. Rimane solo da vedere se la fantasmagorica svolta sarà davvero rivoluzionaria o un altro episodio nel romanzo interminabile delle speranze disattese nella lotta contro l’Alzheimer. Ma almeno ci hanno provato, e per questo meritano una pacca sulla spalla… almeno finché non sarà troppo tardi.
Ah, finalmente l’autorizzazione europea per il tanto acclamato donanemab, un farmaco che promette di rallentare il declino cognitivo e funzionale nella tanto amata (o temuta) malattia di Alzheimer. Tutto si basa sui tanto celebrati studi clinici Trailblazer-Alz 2 e Trailblazer-Alz 6, perché non c’è niente come affidarsi a nomi altisonanti per insegnarci quanto siamo vicini alla soluzione definitiva, giusto?
Dallo studio di fase 3 Trailblazer-Alz 2 apprendiamo che il donanemab ha rallentato “significativamente” il declino e ha ridotto il rischio di progredire allo stadio successivo della malattia in 18 mesi. Un obiettivo magnetico per pazienti e famiglie, anche se con un pizzico di cautela: le belle immagini mostrano alcune ammaccature chiamate Aria-E e Aria-H, ovvero edema, versamenti, emorragie e fantastici depositi di emosiderina. Splendide eventualità collaterali, specialmente per chi porta 1 o 2 copie del gene ApoE4 – quell’elegante segna-malanni genetico le cui vittime sono proprio quelle più a rischio di Alzheimer e, sorpresa sorpresa, più esposte a queste prodezze chiamate Aria.
Ovviamente, ai pazienti viene suggerito di chiacchierare tranquillamente con gli operatori sanitari su queste “piccole” preoccupazioni di sicurezza. Semplice, no? Nulla di strano, solo un cocktail di rischi ragionevoli da considerare in cambio – si spera – di qualche briciola di tempo in più con una mente leggermente più lucida.
Il dosaggio perfetto, o quasi
Nel frattempo, il regime di dosaggio di donanemab si basa su un altro gioiellino, lo studio di fase 3b Trailblazer-Alz 6, dove la magica strategia è stata quella di “aumentare gradualmente” il dosaggio per ridurre drasticamente l’incidenza di Aria-E a 24 e 52 settimane. Pazzesco, no? Una specie di dolce camminata sul filo del rasoio tra efficacia e sicurezza, con un risultato che sembrerebbe mantenere la rimozione delle placche amiloidi al pari del più spietato dosaggio nello studio precedente.
Bravo chi ha pensato a queste dosi a strati che sembrano più un atto di destrezza farmacologica che una semplice somministrazione: meno rischi, stessa magia. Un potenziale equilibrio tra desiderio di speranza e paura degli effetti collaterali. Classico esempio di come si possa prendere una sostanza potenzialmente letale e cercare di addomesticarla con diplomazia.
Elias Khalil, presidente e General Manager del Lilly Italy Hub, spara la sua perla di saggezza:
“Donanemab ha mostrato risultati molto significativi nelle persone con malattia di Alzheimer sintomatica in fase iniziale, rallentando il declino cognitivo e funzionale nel nostro studio di fase 3 Trailblazer-Alz 2.”
Ci tiene a sottolineare che più precocemente vengono identificati, diagnosticati e trattati i pazienti, migliore sarà la loro risposta. Tradotto: se ti becco prima che ti scappi di mano la faccenda, forse la terapia funziona. Geniale, un po’ come dire che se cominci la dieta prima del dolce, perdi più peso.
Per concludere, questa autorizzazione europea offre “una nuova opzione” ai malcapitati pazienti, regalando loro la “possibilità di più tempo” per dedicarsi a ciò che conta davvero. Ovvero, sperare che questo trattamento sia l’asso nella manica che mette almeno un freno a questa tragedia neurologica che porta via ricordi e identità.



