Due scienziati italiani negli Usa sparano a zero sulle cellule camaleontiche del cancro: la caccia che promette di rompere le regole del gioco

Due scienziati italiani negli Usa sparano a zero sulle cellule camaleontiche del cancro: la caccia che promette di rompere le regole del gioco

Le cellule tumorali sfuggenti, veri lupi solitari che si staccano dalla mandria, cambiano faccia a piacimento e giocano a nascondino con la medicina, continuano a essere una rogna per la scienza. Ma non temete, un team di cervelloni italiani, trapiantati negli Stati Uniti, è riuscito a individuarle e studiarle grazie a strumenti talmente all’avanguardia da far invidia a qualsiasi blockbuster di fantascienza. I risultati, appena usciti su Cancer Cell, promettono di svelare qualche segreto in più sulla maledetta plasticità tumorale.

A fare gli onori di casa sono Anna Lasorella, co-direttrice del Sylvester Brain Tumor Institute (SBTI) e capo della Precision Medicine Initiative dello stesso centro, insieme a Antonio Iavarone, il direttore del SBTI e vice direttore del Sylvester Cancer Center all’Università di Miami. Questa coppia d’oro punta i riflettori sul nemico numero uno: un tumore spietato chiamato glioblastoma, con un tempo medio di sopravvivenza che mal volentieri supera un anno dalla diagnosi. Ah, e per chi si illude che il problema finisca con il trattamento iniziale: si sbaglia di grosso, perché il glioblastoma recidiva quasi sempre, e le recidive sono sempre più dure da sconfiggere.

Partendo da questa bella situazione, i nostri scienziati hanno fatto un passo avanti da manuale. Usando una piattaforma chiamata CosMx nel cuore della Miller School of Medicine, sempre a Miami, sono finalmente riusciti a vedere le cellule tumorali nel loro ambiente naturale, classificandole singolarmente senza scomporre il tessuto come si faceva prima. La scoperta? Le cellule del glioblastoma che si tengono compagnia, quelle in gruppo, sono meno letali. Le vere star tragiche sono quelle che si disperdono da sole: queste signore e signori sono delle trasformiste indomite, dotate di una plasticità degna di un contorsionista da circo, capaci di cambiare forma e stato a piacimento.

Dimenticate per un attimo i buoni propositi della medicina: la plasticità è proprio quell’attributo che rende il cancro un avversario fastidioso, soprattutto perché le cellule plastiche sfuggono alle terapie e garantiscono risultati peggiori per i poveri pazienti. Peccato che fino a ieri nessuno avesse ancora capito da dove arriva tutta questa malefica plasticità. Bene, qui entra in scena la genialata di Lasorella e Iavarone, che spostano la lente d’ingrandimento sulle relazioni spaziali tra le cellule. Per loro, in poche parole, è tutta una questione di geografia.

Antonio Iavarone ha detto:

“Da anni sappiamo che l’aggressività estrema di tumori come il glioblastoma deriva dalla capacità di alcune cellule di adattarsi e sopravvivere ad ambienti ostili, che mancano di ossigeno o sono pieni di farmaci tossici come la chemioterapia. Questa capacità si chiama plasticità, ovvero la capacità di cambiare continuamente. Ci siamo chiesti perché alcune cellule rimangono statiche e vulnerabili mentre altre si trasformano e resistono.”

La risposta, per fortuna (o purtroppo, a seconda dei punti di vista), non è ancora nascosta nel folklore, ma in serie di analisi computazionali nuove di zecca e in tecnologie super potenti che permettono di studiare le caratteristiche delle singole cellule mantenendo il loro contesto. Perché, lo ribadiamo, la posizione geografica, anche a livello cellulare, fa la differenza tra una vittima sacrificale e un imbroglione resistente.