Dazi Usa alle stelle, prezzi in fuga e i salari italiani che sembrano di cartone

Dazi Usa alle stelle, prezzi in fuga e i salari italiani che sembrano di cartone

I dazi imposti da Donald Trump e dalla sua America tutta potente stanno cominciando a fare danni non solo al commercio globale, ma anche all’economia statunitense stessa. Stando alle fantasiose Prospettive economiche intermedie dell’OCSE, presentate con tutta la pomposità del caso martedì scorso, la crescita mondiale si avvia a un simpatico declino: dal +3,3% del 2024 si passerà al modesto +3,2% nel 2025 e, pensate un po’, a un misero +2,9% nel 2026. Colpa dei dazi e di quell’immancabile incertezza politica che, come sempre, amano zavorrare investimenti e scambi.

Negli Stati Uniti, dopo un entusiasmante rimbalzo del +2,8% nel 2024, il Pil dovrebbe limitarsi a crescere dell’1,8% nel 2025, per poi arrancare ancora di più fino all’1,5% nel 2026. L’illustre organizzazione parigina sottolinea con aria di sufficienza che i dazi, schizzati in media al 19,5% a fine agosto (il picco più alto dal lontano 1933), stanno già facendo sentire il loro disastroso effetto sui prezzi al consumo, soprattutto sui beni durevoli, e potrebbero presto tormentare i mercati del lavoro e le scelte di spesa delle famiglie, che tra l’altro già arrancano.

Le indagini appena fresche fresche tra le imprese suggeriscono che “gli aumenti continui dei prezzi nella produzione manifatturiera americana stanno allegramente finendo nei prezzi finali dei prodotti”. Anche i dati sull’importazione confermano la comodità di poche aziende straniere, che hanno deciso saggiamente di non coprire l’aumento dei dazi statunitensi nei prezzi delle esportazioni verso gli USA. Eccezione da manuale? Il prezzo delle autovetture giapponesi, che invece è crollato. Che virtù! Che generosità!

Nel fantastico mondo dell’area euro, invece, la crescita prevista sarà un soffice 1,2% nel 2025 e un romantico 1% nel 2026. La solita Germania, quella che ama le politiche fiscali espansive in quanto sono rosicchiate dai vicini, avrà il suo piccolo aumento, mentre la Francia e, udite udite, l’Italia, col mirabolante consolidamento dei conti pubblici, si ritroveranno a dare il freno a mano all’economia. Per il nostro Belpaese, l’OCSE fa il miracolo della previsione: una crescita allo 0,7% nel 2024 e un deludente 0,6% sia per quest’anno che per il 2026, con un taglio alle speranze di 0,1 punti rispetto alle previsioni di giugno. Mentre Berlino dovrebbe finalmente tirare un sospiro con un +1,1% dopo anni grigi, Parigi si accontenterà di uno 0,9%. Nel frattempo, l’inflazione ballerà all’1,9% nel 2025 e all’1,8% nel 2026, ma i salari? Oh beh, quelli saranno deboli come sempre, ostacolati da una crescita modesta delle retribuzioni nominali.

Il rapporto, sempre pragmatico, ci ricorda che “la combinazione di un rallentamento nelle crescite salariali nominali e un’inflazione ancora troppo alta sta causando un’accelerazione negativa dei salari reali dall’ultimo trimestre del 2024 in molte economie avanzate, tra cui Giappone, Italia, Canada, Spagna e Regno Unito”. Insomma, la gioia quotidiana di chi lavora. Nel frattempo, scoppiano le tensioni sui prezzi alimentari in un bel gruppetto di paesi, tra cui proprio il nostro amato Italia, affiancata da Corea del Sud, Sudafrica e Regno Unito; bonus degno di nota, invece, in India, dove il prezzo del cibo sembra avere qualche remora a salire.

Quanto al tema delicato del lavoro, il tasso di disoccupazione fa il simpatico: cala in Italia e Spagna, raggiungendo un record storico nell’area euro, ma misteriosamente cresce negli Stati Uniti, in Germania e in Francia. Davvero una sinfonia di incoerenze degna di nota.

Álvaro Santos Pereira, l’eccelso capo economista dell’OCSE, si è lasciato scappare qualche consiglio da maestro, con voce solenne:

“L’Italia oggi si trova in una posizione migliore rispetto a qualche anno fa, ma è fondamentale continuare con i sacrifici per risanare e ridurre il debito, progredire nelle riforme e investire nelle competenze”.

E non è finita qui: l’Outlook, questo baluardo della verità economica, raccomanda a gran voce di non smettere di tracciare la retta via della disciplina fiscale, ma anche di mantenere l’indipendenza delle banche centrali – perché senza questa, la credibilità della politica monetaria e la stabilità dei prezzi crollerebbero come un castello di carte. Il tutto in un contesto in cui l’inflazione di fondo nelle economie avanzate del G20 si prevede intorno al 2,6% nel 2025 e al 2,5% nel 2026. Che sollievo.

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