La Corte di Appello di Roma non si è fatta certo scrupoli nell’illuminare con ironica chiarezza l’esilarante strategia messa in scena dai carabinieri coinvolti nel caso Cucchi. Nel loro rapporto, i giudici dipingono un quadro di surreale «realtà di comodo», dove il compito dell’Arma, invece di essere quello di scovare la verità, è risultato semplicemente volto a confezionare una narrazione su misura. Immaginate: non cercavano la «mela marcia», ma servivano sul piatto una versione rassicurante, pronta per essere consumata senza troppi scrupoli o domande scottanti.
La sentenza restituisce un panorama di assurdità degno di un grottesco teatro dell’assurdo: Stefano Cucchi, arrestato a ottobre 2009 e morto sette giorni dopo, dovrebbe la sua tragica fine principalmente alle sue condizioni personali, trasformate dalle accuse in un mix pazzesco di epilessia, tossicodipendenza ciclica ma non contemporanea, anoressia mascherata da vizio di forma, e addirittura un’improbabile sieropositività smentita poco dopo. E tutto questo mentre la custodia affidata a chi avrebbe dovuto tutelare la sua incolumità si rivela non aver lasciato traccia di alcuna anomalia.
Inutile dire che questa inventiva investigativa sia stata concerto di chi doveva gestire la verità: il generale Alessandro Casarsa, insieme ad altri figuranti di questo intricato dramma giudiziario, ha orchestrato linee guida degne degli scacchi più astuti, volte a deviare l’attenzione lontano dai Carabinieri, gettando fumo negli occhi degli inquirenti. In questo modo, si è cercato di costruire un’efficace alibi morale a uso e consumo dell’Arma, mentre il povero Cucchi veniva dipinto come un caso risolvibile con un po’ di buonsenso attribuendogli malattie improbabili più che maltrattamenti reali.
I giudici non hanno lasciato spazio a fraintendimenti sulla condotta di Lorenzo Sabatino, che osava paventare di essere privo di motivazioni: al contrario, la sentenza lo inchioda a una volontà ben precisa, sapientemente allineata con quella di altri colpevoli. Una rete di complicità che si è avvolta attorno a un unico, cinico scopo: distrarre qualunque sospetto dagli appartenenti all’Arma, garantendo così un cappotto di immunità morale e investigativa.
Condanne, prescrizioni e miracoli giudiziari
Il verdetto ha dispensato condanne leggere e prescrizioni più che generose, celebrando così una specie di parabola penale alla rovescia. Lorenzo Sabatino, il più fortunato del gruppo, si becca solo un anno e tre mesi; un altro carabiniere, Luca De Cianni, si becca due anni e mezzo, quasi una licenza premio per buona condotta nel nascondere le prove. Per gli alti ranghi come Casarsa, Francesco Cavallo e Luciano Soligo, la prescrizione è arrivata come manna dal cielo, cancellando con un colpo di spugna penale ogni responsabilità. Mentre altri imputati sono stati assolti o vedono ridurre le loro pene come se fosse solo una questione di alleggerire la zavorra.
Le accuse, variopinte come un catalogo di reati da manuale, spaziano da falso, calunnia, omessa denuncia e favoreggiamento, passando per una girandola di posizioni processuali che sembrano più un ballo ben coreografato che una ricerca della verità. Un sontuoso balletto che lascia più domande che risposte: chi davvero ha pagato per quella morte? Di certo, non chi avrebbe dovuto vegliare.
La verità a modo loro
Questa sentenza di secondo grado, con la sua prosa tagliente e spietata, ci offre un quadro impietoso sulla gestione di un caso destinato a segnare una pagina buia delle nostre forze dell’ordine. Una verità costruita su menzogne dolose, a tavolino, servita come un piatto pronto da gustare dove Stefano Cucchi diventa una figura da additare attraverso una serie impressionante di malattie fasulle e dettagli forzati.
Nel mondo ideale del generale Casarsa e dei suoi sodali, ogni indagine doveva punteggiare il faldone con scuse preconfezionate, mentre l’immagine del giovane romano veniva ridotta a quella di un soggetto sfortunato e malato — così comodo da incolpare, così distante dall’idea di abusi e omissioni pesanti da parte di chi aveva giurato di proteggerlo.
Un’insopportabile lezione di ipocrisia istituzionale, una macabra coreografia che ha portato, in fin dei conti, a una sentenza che sembra meno un verdetto di giustizia e più una commemorazione rituale della comoda menzogna.



