Quando si tratta di scandali che coinvolgono architetti e urbanisti, il copione sembra sempre lo stesso: accuse gravi e prima ancora che si capisca qualcosa, via con misure restrittive di rito. Ma stavolta il tribunale del Riesame di Milano ha deciso di fare un’eccezione e ha annullato i domiciliari imposti all’ex membro della Commissione per il paesaggio del Comune di Milano, Alessandro Scandurra, coinvolto nell’inchiesta sull’urbanistica. Parliamone.
Nonostante la fretta del gip nel puntare il dito contro Scandurra come se fosse il capo di un’oscura cricca, le motivazioni del Riesame sono chiarissime nel demolire questa ricostruzione: non ci sono prove che gli incarichi affidati a lui fossero dovuti al suo ruolo pubblico piuttosto che alla sua professionalità da libero professionista. In parole semplici, sembra che qualcuno abbia confuso l’urbanistica con la fantascienza.
Il tribunale si fa beffe degli accertamenti del gip, definendo la sua interpretazione “una semplificazione argomentativa svilente”. Nessun grave indizio di patto corruttivo: niente mafia, niente moneta sotto il tavolo, solo un quadro confuso e senza senso. In pratica, nessuno ha mai dimostrato che Scandurra abbia creato un clan di imprenditori pronti a versargli tangenti per aggiudicarsi pareri favorevoli dalla Commissione per il paesaggio.
Prosegue il Riesame con un’osservazione che fa pensare: il gip sembra ignorare il fatto che Scandurra è un professionista riconosciuto a livello internazionale, con una carriera e una reputazione tali da farlo apparire più come star dell’architettura che come un truffatore da quattro soldi. Il compenso ricevuto per i suoi incarichi non è certo il bottino di una banda criminale; anzi, è addirittura in linea o inferiore alle tariffe ufficiali dell’Ordine degli Architetti. Ma chiaramente, è più facile dipingerlo come un “lucroso” malfattore piuttosto che un professionista serio.
Un altro dettaglio interessante riguarda il caso del famigerato progetto “Pirellino”, incriminato per presunte pressioni di Scandurra a favore di Coima, la societĂ di Manfredi Catella. Secondo l’accusa, la prova principale dell’accordo corruttivo sarebbe una fattura da circa 28 mila euro emessa dallo studio Scandurra a Coima, ritenuta “falsa” perchĂ© relativa a un periodo temporale distante dal contratto originario e con importi discordanti.
Il tribunale, non senza una punta di sarcasmo, smonta questa tesi: la fattura non è affatto falsa, ma corrisponde perfettamente a un’attività svolta da Scandurra nell’ambito dell’aggiudicazione definitiva del lotto da parte di Coima. E, aggiungiamo noi, considerata la lunghezza dei processi italiani, la puntualità di questa fattura è quasi un miracolo. Ma chi ha tempo e voglia di badare ai dettagli quando c’è un capro espiatorio da inchiodare?
Infine, lo stesso giorno è stata resa nota la motivazione per la scarcerazione del costruttore Andrea Bezziccheri, altro personaggio coinvolto nell’affaire. Anche qui, la corte sembra aver preferito fare un passo indietro invece di alimentare un circo mediatico senza fondamento.
Un processo a orologeria e il trionfo dell’ambiguitĂ
Questa vicenda è la perfetta rappresentazione di come la giustizia italiana possa spesso trasformarsi in uno spettacolo grottesco: un’accusa lanciata con enfasi, misure cautelari aggressive, e poi – sorpresa! – dopo mesi o anni, dati e fatti che smentiscono le accuse di partenza. Nel frattempo, però, l’immagine e la carriera delle persone coinvolte sono spesso irrimediabilmente danneggiate.
Il caso Scandurra ci ricorda che, nel gioco al massacro tra indagini “squillanti” e tribunali che richiedono prove solide, il confine tra veritĂ giudiziaria e persecuzione personale diventa tante volte sfocato, offuscato da interessi e prese di posizione affrettate. Se poi aggiungiamo la spettacolarizzazione mediatica, il risultato è un pasticcio perfetto degno della peggior commedia dell’assurdo.
Per chi ama la trasparenza, sarà interessante vedere come andrà avanti questa storia: se da un lato è auspicabile una lotta severa alla corruzione, dall’altro è indispensabile mantenere una solida distinzione tra sospetto e certezza, tra accusa e giudizio motivato. Altrimenti rischiamo semplicemente di trasformare i tribunali in teatri dove si recitano copioni già scritti, e i protagonisti sono vittime sacrificali di un sistema che preferisce le apparenze alla sostanza.



