Il risultato? Una sfida titanica che mette a dura prova medici, infermieri e persino i pazienti, che spesso vengono colpiti senza preavviso, in un crescendo di ansie e tentativi di salvarsi dal baratro. Una patologia che si dice “povera conoscenza” ma “alta mortalità”, come se si trattasse di un segreto industriale invece che di un problema che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti.
La sepsi, quel piccolo dettaglio medico capace di trasformare un innocuo raffreddore in una catastrofe biologica, colpisce circa 50 milioni di persone nel mondo ogni anno. E non si limita a fare qualche sgambetto: provoca ben 11 milioni di morti globalmente, affermandosi come una delle emergenze sanitarie più tremende. Anche in Italia, il sipario sulla tragedia è piuttosto fosco, con tassi di mortalità stimati tra il 25% e il 40%, degni di una prodezza da record mondiale – peccato non vincente.
Un monito arriva da Aop Health, che con la consueta modestia ci ricorda come la sepsi sia una bestia subdola: in Italia i decessi correlati a questa patologia sono passati da circa 19mila nel 2003 a oltre 49mila nel 2015, cioè un incredibile aumento dal 3% all’8% di tutti i morti. Ma aspettate, sembra che la cosa diventi ancora più spaventosa, dato che l’Osservatorio nazionale sull’antimicrobico resistenza mette la ciliegina sulla torta con un picco di 70mila vittime nel 2020. Insomma, una vera festa del disastro che fa capire quanto la sepsi non sia un semplice grattacapo di reparto, ma una priorità assoluta, quella che amano tutti, dai burocrati agli appassionati di salute pubblica.
Illustriamo il problema: come riconoscere la sepsi in tempo
In perfetto stile enigmistico, la sepsi si presenta con sintomi variabili, spesso aspecifici e quindi perfetti per confondere anche il più brillante degli anestesisti. La sfida è una sola: scovarla il prima possibile, perché la rapidità nella diagnosi e l’intervento tempestivo sono gli unici ingredienti per limitare il disastro. Le cause? Una sfilza di infezioni batteriche, virali o fungine, da quelle banali come l’influenza o il cosiddetto “Covid-19” fino alle infezioni urinarie, giusto per citare due classici. Peggio ancora, non è affare solo da ospedale: la sepsi colpisce ovunque, dall’ambulante al salotto di casa, e adora far visita a chi ha subito un ricovero recente, un’operazione, o è semplicemente più fragile come gli anziani, i bambini sotto l’anno di età o chi ha il sistema immunitario in saldo.
Massimo Girardis, ordinario di Anestesia e terapia intensiva presso l’università di Modena e Reggio Emilia e direttore del Dipartimento di Anestesia e terapia intensiva del Policlinico universitario, mette il dito nella piaga:
“Febbre alta, respirazione accelerata con brividi violenti e uno stato confusionale dovrebbero essere segnali lampeggianti per sospettare la sepsi. Se questi campanelli d’allarme vengono ignorati o scambiati per un semplice malanno, la finestra di intervento si chiude a velocità sorprendente.”
La prevenzione? Un miraggio tra difficoltà diagnostiche e resistenze microbiche
Per chi si illude che la prevenzione sia faccenda semplice, ecco una doccia gelata: siano state patologie tutte più o meno ordinarie (respiratorie, urinarie, o altro), la lotta contro la sepsi è resa ancora più ardua dalla crescente resistenza agli antimicrobici. Il fenomeno non è un dettaglio marginale, ma una vera emergenza all’interno dell’emergenza, capace di trasformare antibiotici una volta miracolosi in semplici fantasmi ingannatori.
Il risultato? Una sfida titanica che mette a dura prova medici, infermieri e persino i pazienti, che spesso vengono colpiti senza preavviso, in un crescendo di ansie e tentativi di salvarsi dal baratro. Una patologia che si dice “povera conoscenza” ma “alta mortalità”, come se si trattasse di un segreto industriale invece che di un problema che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti.
In sintesi, la sepsi si conferma la regina delle diagnosi sfuggenti, pronta a cogliere di sorpresa chiunque con un cocktail letale di sintomi quasi invisibili e il piacere, non richiesto, di far precipitare la situazione in tempi record. Ma attenzione: il vero dramma è che, nonostante l’allarmismo annunciato, la consapevolezza sociale resta un optional quasi introvabile, mentre la conta dei morti si impennail, un fatto chiaro e drammatico che però sembra non scuotere abbastanza le coscienze.
Ah, la sepsi, quella magnifica emergenza che ogni tanto ricorda brutalmente a tutti noi quanto la vita possa essere delicata. A quanto pare, la formazione del personale sanitario e la benedetta consapevolezza dei cittadini sono gli ingredienti magici di una strategia infallibile per combatterla. Chi l’avrebbe mai detto che sapere cosa cercare potesse, udite udite, salvare vite?
Ora, se la sepsi non viene trattata in tempi utili, si trasforma nello spauracchio supremo: lo shock settico. Non stiamo parlando di un semplice raffreddore, ma della principale causa di morte tra i pazienti nei reparti di terapia intensiva, dove la pressione sanguigna precipita così tanto da mettere a repentaglio la sopravvivenza. Un vero spettacolo di alterazioni cellulari, metaboliche ed emodinamiche degne di un film horror medico.
Secondo studi recentissimi, la mortalità associata a questo terrificante shock settico può superare addirittura il 40%. Ma non finisce qui: nei casi più ostinati e refrattari ai miracoli chiamati vasopressori – quei farmaci usati per raddrizzare la pressione sanguigna – si arriva a punte deliranti dell’80-90%. E come se non bastasse, un’indagine tutta italiana ha scoperto che nelle forme più severe quasi uno su due pazienti non ce la fa. Quindi, davvero, non stiamo parlando di uno scherzino da poco, ma di un’emergenza pubblica che fa tremare i polsi.
Davide Girardis ci regala la sua saggezza:
“La sepsi e lo shock settico rimangono tra le principali cause di morte nella popolazione. Però, grazie a un approccio sempre più mirato, tempestivo, con supporto emodinamico personalizzato e gestione delle complicanze cardiache, possiamo finalmente migliorare gli esiti per i pazienti critici. Essenziale è il lavoro di squadra – medici, infermieri, farmacisti, personale tecnico – che deve agire in tempi record con protocolli integrati.”
Non c’è dubbio: la si gioca tutta sulla velocità. Perché, come ben sappiamo, il tempo è l’unico vero nemico quando il corpo decide di andare in tilt. Peccato però che ancora oggi la sepsi venga riconosciuta tardi, quando ormai tutto è degenerato. Ma hey, almeno ora sappiamo su cosa puntare: tempestività, quella sì che fa miracoli.
Roberta Termini, direttore medico di Aop Health Italia, aggiunge con la sua solita modestia:
“Come azienda che si occupa di farmaci per le emergenze, ci sentiamo in dovere di promuovere la conoscenza della sepsi e un modello di trattamento integrato, dal triage rapido al trasferimento in terapia intensiva fino al follow‑up. Un mix di terapie farmacologiche, protocolli clinici e organizzazione interdisciplinare ideato per migliorare davvero la sopravvivenza e, udite udite, salvare vite umane.”
Insomma, tutto un gran lavoro di squadra e organizzazione, perché la sepsi non è esattamente una passeggiata in spiaggia. Ma quali sono i veri fattori decisivi? La diagnosi tempestiva e l’intervento rapido con antibiotici e fluidi, insieme alla personalizzazione del trattamento secondo il paziente, perché si sa, uno vale uno: ognuno ha la sua storia e il suo “pacchetto complicazioni”.
Adriano Peris, responsabile scientifico dell’associazione T.I. Do Aiuto, ci illumina sul lato più umano di questo inferno ospedaliero:
“La terapia intensiva è uno di quei reparti che nessuno accetta volentieri, né pazienti né familiari. La nostra missione è fornire supporto fin dall’ingresso, ascoltare le loro esigenze, semplificare il percorso clinico e assistenziale e mantenere un minimo di umanità nel bel mezzo del caos terapeutico. Per questo, insieme a Aop Health Italia, spingiamo la campagna di sensibilizzazione ‘Intensivamente’, perché informare non è mai abbastanza.”
Quindi eccoci qua, tra protocolli che corrono, farmaci che cercano di fare miracoli e umanità che non si perde per strada, nell’infinito tentativo di farcela davvero contro un nemico invisibile ma spietato. E mentre il mondo corre, la sepsi resta lì a ricordarci, tra una statistica e l’altra, che la vita è un gioco sottile dove, ogni tanto, basta un attimo per fare la differenza tra un ‘ce l’ho fatta’ e un ‘mi dispiace’.