Cervello di ritorno o solo un’altra scusa per farsi belli con la curiosità

Cervello di ritorno o solo un’altra scusa per farsi belli con la curiosità

Il termine “fuga di cervelli” non fa certo impazzire Davide Folloni, 38 anni, uno dei neuroscienziati italiani insigniti del prestigioso Erc Starting Grant 2025. Originario di Bagnolo in Piano, un paesino sperduto in provincia di Reggio Emilia con neanche 9mila abitanti, ha raccolto esperienze da Parma a Padova fino a infilare puntine sulla mappa della sua personale odissea scientifica tra Europa e America. Ma, attenzione: non ha mai imballato «cervelli», bensì solo una ruspante «curiosità» da esploratore intellettuale. Questa piccola grinta interiore è stata la sua stella polare prima verso la Danimarca, poi verso il Regno Unito, proprio mentre raffinava le sue competenze da psicologo clinico. A Oxford, grazie a una borsa Wellcome Trust, ha stretto amicizia con le neuroscienze, respirandone l’aria frizzante dal 2014 al 2020 — giusto quella travagliata epoca pandemica dove, ironicamente, il mondo si è fermato, lui no.

Senza alcun interesse smisurato per la busta paga o la semplice esperienza all’estero, Folloni ha seguito la vera musa ispiratrice: la sfida scientifica. La passione che aleggiava in quei laboratori ha fatto sì che, nel 2020, proprio mentre tutto il pianeta tirava il fiato, lui prendesse il volo per New York. E non si è trattato di turismo: alla Icahn School of Medicine at Mount Sinai ha tirato su il suo progetto di ricerca fondamentali che ora, con l’assegnazione dei fondi Erc, lo riportano trionfalmente nella patria italica. Nel frattempo, si è dato da fare da affiliato alla Yale University, ha messo in cascina un prestigioso premio dai National Institutes of Health e si è preparato a portare la sua nuova sfida scientifica nel capoluogo meneghino, presso l’università Vita-Salute San Raffaele.

Ecco la chiave di lettura che ci regala questo navigatore delle neuroscienze: la molla è seguire gli interessi scientifici, senza farsi ingabbiare da nazionalismi o paletti geografici. A volte si va, a volte si torna, ma soprattutto si devono saper accettare i sacrifici — come un eroe della scienza che rifiuta di farsi anestetizzare dalla retorica della fuga di cervelli. «Con me», dice, «porterò un po’ di visione internazionale, perché a Milano c’è un’attenzione speciale per lo sviluppo di nuove terapie mediche neuroscientifiche». Ottimo slogan.

E non credete che il nostro sia un tipo da torre d’avorio, anzi. Folloni è pragmatico al punto giusto e crede fermamente nella comunicazione chiara e accessibile: chi l’ha detto che la scienza deve parlare un gergo oscuro? Il suo percorso, però, ammette candidamente che è nato – come tutto buon scienziato che si rispetti – da quei terreni aridi e lontani dall’immediata applicabilità clinica. Ma torniamo al primo amore: la curiosità.

Da bambino, confessa, era un osservatore silenzioso e minuzioso delle persone. Passava ore a domandarsi un’enigma semplice, ma potente: perché ci comportiamo così? Come può un comportamento umano assomigliare tanto a quello dei nostri amici animali? Un quesito filosofico, certo, ma è proprio da lì che la sua avventura intellettuale ha preso il volo: dal semplice interrogarsi all’arduo compito di rispondere concretamente e poi trasformare quel sapere in qualcosa di utile, concreto, rivoluzionario.

Che sorpresa, un’altra brillante occasione per trasformare una curiosità scientifica in un’opportunità terapeutica dove ancora nemmeno ci avviciniamo al problema. Il geniale Folloni e il suo team si immergono a capofitto nei misteriosi “circuiti cerebrali dell’umore”, come se fosse semplice come aggiustare un interruttore. Missione impossibile? No, missione “capire le oscillazioni dell’umore più estreme”, dalla depressione al bipolarismo, tentando di scoprire come questi circuiti, in una seduta di follia quotidiana, improvvisamente si ribellano.

Ovviamente, il campo d’azione spazia ampiamente. Parliamo di “mental health” (che suona sempre meglio in inglese) e, ciliegina sulla torta, di “benessere”. Tutto un programma, mentre Folloni risponde – con un fuso orario a favore – direttamente dagli Stati Uniti, pronto a lanciare il suo spettacolo scientifico a Milano. «Contiamo di iniziare al più presto», dice, con la tipica agonizzante nostalgia di chi ha appena lasciato anni di vita da qualche parte e adesso si destreggia tra questioni pratiche e sentimentalismi da expat.

Il lato oscuro di lasciare il proprio amato Paese? Non poter essere lì per le persone care. Prezzi da pagare, ma almeno c’è una macchina per tornare rapido, eh. Quando gli studenti chiedono consigli, la solita perla: «Tutto dipende da come vi immaginate nel futuro». Ah, certo, perché la scienza regala tanto, ma ruba pure altrettanto. L’assenza dagli affetti non è un optional, è un requisito.

I fondi ERC: la manna dal cielo scientifica

I fondi ERC sono la nuova bacchetta magica per Folloni. Siamo in una fase irripetibile, dice lui, dove la tecnologia fa miracoli – e non solo con i robot che sembrano usciti da un film di fantascienza. Intelligenza artificiale? Non solo fantasmagorici Terminator, ma algoritmi insidiosi che fanno parte del gioco scientifico.

Se i capitali dovessero aumentare, ci sarà finalmente la possibilità di rispondere alle tanto decantate grandi domande che muovono la scienza stessa. Sin qui tutto bello e promettente, ma attenzione: non basta sfornare brillanti cervelli, premi Nobel in divenire o futuri Einstein, se poi, nel momento cruciale della loro indipendenza, il portafoglio è vuoto e le prospettive svaniscono come fumo.

Serve un sistema che consenta a questi cervelloni di svilupparsi e prosperare lungo la propria strada senza sentirsi come eroi tragici in una saga senza lieto fine. E qui arriva il colpo di scena: non è detto che l’eldorado americano sia tutto rose e fiori, anzi.

Prendete l’Italia: tra mille millemila critiche, almeno una cosa giusta c’è – e mica da poco: l’università costa ragionevolmente, permettendo a chiunque di studiare senza finire schiacciato dal debito. Una vera e propria dittatura del “meno male che c’è” nel bel Paese. Aggiungiamo questa perla alla lista delle “contraddizioni italiane”.

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