Stefania Livoli ha detto:
“È successa esattamente la stessa dinamica. L’unica differenza è che io non ero alla fermata del tram. Il trauma si è riaperto, e la tragedia di Milano mi ha riportato a quel giorno. Se non l’hai vissuto, puoi solo capirne metà. Il destino ha voluto che fossi esattamente lì, in quel momento; un po’ come è successo a lei.”
Era il 22 ottobre 1988, un sabato mattina. Stefania parcheggiò in seconda fila, fece il suo ordine veloce e disse, prima di uscire, “Torno dopo a prenderla”. La scena comune di ogni persona con il tempo contato. Ma proprio mentre si avvicinava alla macchina, due adolescenti, minorenni rom, rubarono un’auto, scippando anche una donna durante la fuga, e persero il controllo prendendola in pieno.
Lei non vide nulla. Le raccontarono volò più in alto di un camion, cadde sfondando il parabrezza e si ritrovò piena di vetri e schegge dappertutto, con una spalla in frantumi, i piedi distrutti e un trauma cranico. Quando si risvegliò in ospedale, disse: “Mi è passato un treno sopra”. Una sequela di dolore e disperazione, certo, ma anche una paradossale sorte: sopravvivere a un disastro simile era già una fortuna, al netto di una riabilitazione lunga e devastante.
Durante quella stessa folle fuga, i due ragazzi investirono anche un’altra donna anziana, che rimase gravemente ferita al volto ma non denunciò per paura. Stefania, invece, scelse di andare fino in fondo con la denuncia, convinta che fosse il minimo da fare nel tentativo di dare un senso alla sua vita – o a quella che le rimaneva.
Le tre famiglie dei quattro ragazzi coinvolti nell’incidente di Milano, dove un’auto rubata ha travolto e ucciso la pensionata di 71 anni Cecilia De Acutis, si sono dileguate dal campo rom di via Selvanesco. E no, non è una fuga da criminali: nessun provvedimento giudiziario li caccia via e nemmeno la polizia era stata incaricata di sorvegliare quel campo. Pare piuttosto una scelta strategica, il classico “facciamo finta che non sia successo nulla” per evitare i riflettori di una stampa che, come sempre, ci si è buttata a pesce.
C’è qualcosa di tragicomico in questa circostanza, ma la realtà è che il silenzio e l’uscita di scena sono gli unici strumenti a disposizione per quelle famiglie per scrollarsi di dosso il clamore mediatico e, probabilmente, le critiche.
Storia speculare, diversa sorte
Nel frattempo, a distanza di anni e a centinaia di chilometri, una donna sopravvissuta a un incidente quasi identico rivive il trauma. Stefania Livoli, romana di 58 anni e professionista dell’informazione, racconta con tragica ironia la sua esperienza: 36 anni fa, a soli 21 anni, fu investita mentre ordinava una torta in pasticceria.
Stefania Livoli ha detto:
“È successa esattamente la stessa dinamica. L’unica differenza è che io non ero alla fermata del tram. Il trauma si è riaperto, e la tragedia di Milano mi ha riportato a quel giorno. Se non l’hai vissuto, puoi solo capirne metà. Il destino ha voluto che fossi esattamente lì, in quel momento; un po’ come è successo a lei.”
Era il 22 ottobre 1988, un sabato mattina. Stefania parcheggiò in seconda fila, fece il suo ordine veloce e disse, prima di uscire, “Torno dopo a prenderla”. La scena comune di ogni persona con il tempo contato. Ma proprio mentre si avvicinava alla macchina, due adolescenti, minorenni rom, rubarono un’auto, scippando anche una donna durante la fuga, e persero il controllo prendendola in pieno.
Lei non vide nulla. Le raccontarono volò più in alto di un camion, cadde sfondando il parabrezza e si ritrovò piena di vetri e schegge dappertutto, con una spalla in frantumi, i piedi distrutti e un trauma cranico. Quando si risvegliò in ospedale, disse: “Mi è passato un treno sopra”. Una sequela di dolore e disperazione, certo, ma anche una paradossale sorte: sopravvivere a un disastro simile era già una fortuna, al netto di una riabilitazione lunga e devastante.
Durante quella stessa folle fuga, i due ragazzi investirono anche un’altra donna anziana, che rimase gravemente ferita al volto ma non denunciò per paura. Stefania, invece, scelse di andare fino in fondo con la denuncia, convinta che fosse il minimo da fare nel tentativo di dare un senso alla sua vita – o a quella che le rimaneva.
E qui arriva la nota più amara: la giustizia, quella che dovrebbe proteggere le vittime, non ha brillato per efficienza né per giustizia. Il lento e frustrante processo ha lasciato Stefania con la sensazione di essere stata abbandonata, mentre i carnefici fuggivano quasi impuniti tra cavilli e vuoti normativi. La stessa sensazione che in tanti provano quando si guardano intorno e vedono che gli strumenti dello Stato sembrano più svuotati delle promesse da campagna elettorale.
Realtà amara, eh? Uno dei due minorenni coinvolti era così tranquillo da starsene seduto sulle panche prima di entrare da quel simpaticone di giudice. Ricordo ancora bene quella faccia da santo. Il giudice, con tutta la sua sapienza, mi disse: “Metta una mano sulla coscienza: la sua denuncia potrebbe segnare il destino di quei ragazzi, e sono incensurati.” Sì, certo, incensurati come chi lega un ragazzino a un albero e gli spegne le sigarette addosso. Alla fine, ho mollato. Un anno dopo, la sua faccia imbevuta d’innocenza l’ho vista sul giornale: il protagonista dell’orrore era proprio lui, quello per cui mi avevano chiesto di chiudere un occhio.
Oggi la sensazione è la stessa: non è colpa dei bambini se nascono nei campi nomadi o crescono in modo selvaggio, ma qualcuno – dico qualcuno – dovrebbe farsi carico di educarli. Perché, guarda un po’, l’educazione non si inventa sola. Quel giudice disse di aver faticato a rintracciare uno dei due perché la famiglia l’aveva ufficialmente disconosciuto. Non era proprio il massimo della collaborazione, ma eventualmente qualcuno avrebbe dovuto intervenire. Un errore può capitare, ma se lasci correre, i ragazzi si sentiranno invincibili e autorizzati a continuare a fare casino impunemente.
Nella tragedia di Stefania c’è persino una puntata tragicomica da raccontare. Qualche mese dopo l’incidente, quando è stata chiamata dai carabinieri, è dovuta tornare nella pasticceria di via Oderisi da Gubbio. E indovinate chi c’era lì? Il gigantesco attore Mario Brega. Sì, proprio lui, l’omone che aveva assistito all’incidente dal suo appartamento sopra la pasticceria. Il proprietario, chissà perché, gli ha chiesto se sapesse chi fosse quella ragazza menomata con il gesso. Lui si volta, la guarda, la tira a sé e inizia a piangere come un bambinone commosso. Sembra quasi la figlia, ha detto, perché l’aveva vista muoversi sotto il lenzuolo bianco. Un vero momento di struggente pietà nel mezzo di un disastro.
Stefania, però, ha una visione ben precisa sulle sacrosante lamentele attuali di chi dice che punire quei quattro ragazzini milanesi è inutile e che la soluzione sarebbe la scuola. “Sono madre,” ci tiene a sottolineare, “La scuola deve fare la sua parte ma l’educazione vero, quello serio, comincia a casa. Se non ci sono regole, questi ragazzi crescono senza nessuno che gliele imponga. E quando si mettono a guidare, beh, scoprono il limite coinvolgendo qualcun altro, purtroppo.”
Un tocco di genio politico la sua quando osserva che forse qualcuno dovrebbe fare il lavoro più semplice: verificare se quei bambini nei campi rom riescono ad andare a scuola, perché evidentemente non c’è nessun altro con l’arduo compito di alzarsi la mattina e controllare la presenza scolastica nei ghetti urbani.
Quando le chiediamo cosa direbbe ai figli della signora 71enne travolta e uccisa a Milano, Stefania si blocca, un po’ come se fosse il momento in cui le parole scarseggiano davvero. “Mi ha fatto venire la pelle d’oca,” confessa, prima di tirare fuori dal cilindro la crudezza che non si vuole sentire ma che tutti conoscono: “Non è una disgrazia, è un omicidio. Nessuno restituirà loro la mamma e, soprattutto, dubito che avranno giustizia. Sarà un peso che porteranno sempre, con quel sapore di rabbia mista a inutilità. E come tante altre storie che leggiamo ogni giorno, tutto si ridurrà a ‘si trovò nel posto sbagliato al momento sbagliato’. Ma qui non c’è spazio per il concetto di disgrazia: stiamo parlando di una serie di adulti irresponsabili che hanno dato il volante a dei ragazzini, delegando così loro la sentenza di morte.”
Il passato non è mai così distante e Stefania sa bene quel che si prova a sentirsi infilare nella carne parole che fanno male, come quelle della madre di uno dei ragazzi. “Mi hanno lasciata senza parole, anzi sconcertata,” ammette senza peli sulla lingua. “A volte basterebbe un semplice gesto, un’ammissione di colpa, per aiutare chi soffre. Non può certo far tornare indietro il tempo o la vita strappata via, ma almeno cambia qualcosa. Per questo mi sento vicina alla rabbia dei figli della signora.”
Il racconto va oltre e si tuffa nel ricordo del padre di Stefania, mai argomento di discussione in famiglia finché un giorno una diagnosi di malattia neurodegenerativa non lo costrinse a rivelare l’impatto del trauma. Il primo a sapere dell’incidente fu un amico che trovò a terra il foulard e l’orologio di Stefania e li consegnò a lui. Il padre, pallido come un lenzuolo, immaginò persino una rapina. Solo dopo realizzò l’orrore. Non si sarebbe mai sognato di liquidare tutto come una semplice “disgrazia”.
Stefania è convinta: ciò che stanno vivendo quei ragazzi è inimmaginabile senza passarci personalmente. “Da fuori,” dice, “puoi solo intuire, ma la comprensione piena si acquisisce solo vivendo quella sofferenza sulla propria pelle. Per questo ribadisco: non parlerei mai di disgrazia ma di omicidio. Qualcuno deve prendersi finalmente la responsabilità di questa tragedia.”



